Fra i vari indicatori utilizzati per misurare la qualità della vita, il prodotto interno lordo (PIL) rappresenta certamente quello di più largo impiego. Non altrettanto si può dire, purtroppo, per la qualità della ricerca, cronicamente sottofinanziata in Italia a dispetto dell’eccellente ottavo posto che la nostra comunità scientifica occupa nelle classifiche mondiali. A ciò si aggiunge la percezione, sovente distorta, degli scienziati da parte dell’ italiano medio, più somiglianti a creature aliene piuttosto che a imprescindibili protagonisti del presente e, soprattutto, del futuro di una nazione. In questo contesto, siamo stati e continuiamo tuttora a esser testimoni di pensieri ed espressioni “stereotipate”, quali ad esempio “le università italiane sono la culla del nepotismo”, “i professori delle nostre università sono baroni”, e così via.
Fra i vari indicatori utilizzati per misurare la qualità della vita, il prodotto interno lordo (PIL) rappresenta certamente quello di più largo impiego. Non altrettanto si può dire, purtroppo, per la qualità della ricerca, cronicamente sottofinanziata in Italia a dispetto dell’eccellente ottavo posto che la nostra comunità scientifica occupa nelle classifiche mondiali. A ciò si aggiunge la percezione, sovente distorta, degli scienziati da parte dell’ italiano medio, più somiglianti a creature aliene piuttosto che a imprescindibili protagonisti del presente e, soprattutto, del futuro di una nazione. In questo contesto, siamo stati e continuiamo tuttora a esser testimoni di pensieri ed espressioni stereotipate, quali ad esempio “le università italiane sono la culla del nepotismo”, “i professori delle nostre università sono baroni”, e così via.
Sebbene non sfugga minimamente, a chi scrive, che deviazioni e distorsioni si siano registrate nel sistema universitario, al pari di molti altri ambiti della vita pubblica e privata del nostro Paese, andrebbe tuttavia affermato e ribadito con forza che “fare di ogni erba un fascio” costituisce l’anticamera di un pregiudizio che mina alle fondamenta il prezioso, tenace, competente e appassionato lavoro della stragrande maggioranza dei docenti, ricercatori e rappresentanti della comunità scientifica del nostro Paese.
E, con il precipuo fine che la meritocrazia rappresentasse il fondamentale prerequisito attraverso cui operare un’idonea selezione dei candidati alla posizione di “Professore di I Fascia” (professore ordinario) o di “Professore di II Fascia” (professore associato) nei nostri atenei, è scesa in campo 9 anni fa la Legge 240/2010, che disciplina la partecipazione, a opera di docenti, ricercatori e studiosi sia italiani che stranieri, alle procedure per il conseguimento dell’Abilitazione Scientifica Nazionale (ASN) a ricoprire il ruolo di professore di I e di II fascia. Tale norma, meglio nota come “Legge Gelmini”, sebbene virtuosa nelle premesse e nell’impianto generale, non sarebbe stata abbastanza coerente, tuttavia, nella declinazione dei pur condivisibili principi in essa contenuti. La stessa prevede, infatti, che i candidati al conseguimento dell’ASN per professore ordinario e associato possano presentare, rispettivamente, un numero massimo di 16 e 12 pubblicazioni scientifiche. Ciò ha prodotto, da un lato, la partecipazione di migliaia di aspiranti e, dall’altro, un ingente carico di lavoro per le commissioni (formate esclusivamente da professori ordinari) chiamate a valutare i candidati nei vari settori concorsuali (SC).
Detto questo ci si domanda come fanno i 5 membri di ciascuna commissione a leggere con la necessaria tranquillità e concentrazione tutti i lavori scientifici di una così folta “pletora” di candidati, soprattutto in quegli SC con una numerosità di docenti e ricercatori particolarmente elevata. Perché non capovolgere allora lo schema attuale, concependo un “modello di partecipazione” che preveda la presentazione di un numero minimo anziché massimo di pubblicazioni? E perché non richiedere ai candidati la sola presentazione di lavori pubblicati su riviste peer-reviewed e in cui gli stessi figurino come “primo”, “secondo”, “ultimo nome” e/o “corresponding author“?
Così facendo, vi sarebbe anche un’elevata probabilità che l’ASN possa esser messa a frutto dai “neoabilitati”, attraverso l’ottenimento di una posizione di professore di I o di II fascia, nell’arco dei 6 anni di attuale durata della stessa, peraltro estesi con un recentissimo Decreto Legge a 9 anni.
Un ulteriore elemento di distorsione del sistema meritevole d’attenzione è quello relativo alla composizione delle commissioni per la valutazione degli aspiranti, di cui possono far parte i soli professori di I fascia ritenuti idonei (previa valutazione bibliometrica dei rispettivi lavori scientifici). Per quale ragione la medesima fattispecie non si applica pure agli “abilitati al ruolo di professore di I fascia”, atteso che la valutazione dei candidati all’ASN risulta focalizzata in maniera esclusiva sulle performance scientifiche degli stessi?
Chi scrive ritiene, infine, che l’attività degli aspiranti all’ASN nella duplice veste di “autori” e “revisori” di contributi scientifici sia caratterizzata, a tutt’oggi, da una consistente asimmetria: se è vero com’è vero, infatti, che la qualità di qualsivoglia rivista scientifica passa attraverso il livello dei manoscritti ricevuti, così come attraverso la qualità del referaggio effettuato sui medesimi, non si riesce a comprendere il motivo per cui la valutazione dei candidati all’ASN avvenga quasi esclusivamente come “autori” e non già anche come “revisori” di lavori scientifici!
Concludo con l’auspicio che le opinioni e le considerazioni qui riportate possano trovare adeguati spazi e momenti di discussione non solo fra i membri della comunità accademica e, più in generale, della comunità scientifica italiana, ma anche presso il CUN, l’ANVUR e il MIUR, atteso che il neo-ministro si è da poco insediato alla guida del succitato dicastero.
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