In medicina la raccolta di un gran numero di dati provenienti da una popolazione estesa di pazienti è considerata, ormai da molto tempo, l’approccio giusto per giungere alla comprensione dello sviluppo di malattie e alla progettazione delle giuste terapie. È stato, però, pubblicato da poco un articolo della University of California di Berkeley, in collaborazione con la Drexel University di Philadelphia, la University of Pennsylvania e la Groningen University, che suggerisce che l’uso dei big data potrebbero non essere la soluzione migliore.
In medicina la raccolta di un gran numero di dati provenienti da una popolazione estesa di pazienti è considerata, ormai da molto tempo, l’approccio giusto per giungere alla comprensione dello sviluppo di malattie e alla progettazione delle giuste terapie. È stato, però, pubblicato da poco un articolo della University of California di Berkeley, in collaborazione con la Drexel University di Philadelphia, la University of Pennsylvania e la Groningen University, che suggerisce che l’uso dei big data potrebbero non essere la soluzione migliore.
Cosa sono i big data?
Cosa sono i big data, di cui sentiamo molto spesso parlare? Questo termine comprende le grandi raccolte di dati e il loro trattamento. Questo materiale può essere anche testuale – recensioni e opinioni pubblicate sui social network, articoli di blog e contenuti dei forum – e proviene molto spesso dal web.
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Tra gli ambiti di applicazione di questo grande e complesso insieme di dati che necessita di strumenti e metodologie per estrapolare, gestire e processare informazioni, vi sono il marketing ma anche la medicina.
Una provocazione
La raccolta di grandi quantità di dati e il loro trattamento statistico è sicuramente uno dei capisaldi della ricerca scientifica ed è per questo che lo studio può risultare provocatorio. Gli autori dell’articolo pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences, in realtà, sottolineano che non è la mole di dati il problema ma l’obiettivo finale della loro analisi. I big data sembrano non funzionare in alcuni casi, nel campo dei disturbi psichici, perché emozioni, comportamenti e fisiologia variano significativamente da una persona all’altra e in intervalli di tempo diversi. Per questo motivo ricavare una media, a partire da dati provenienti da un esteso gruppo di esseri umani in un determinato istante, può offrire solo un’istantanea di un fenomeno.
Questa ricerca potrà avere, quindi, ripercussioni che spazieranno dalle terapie personalizzate all’estrazione di dati (data mining) sui social media ma, soprattutto, potrebbe cambiare il modo in cui i medici analizzano, diagnosticano e curano patologie fisiche e mentali.
La ricerca e i risultati
I ricercatori hanno usato modelli statistici per confrontare i dati raccolti a partire da centinaia di persone, includendo individui sani e pazienti affetti da disturbi che andavano dalla depressione e ansia, allo stress post-traumatico e gli attacchi di panico. In sei studi separati, sono stati analizzati dati che consistevano in sondaggi autocompilati, online o su smartphone, e in elettrocardiogrammi per la misura della frequenza cardiaca.
I risultati hanno mostrato che ciò che può essere vero per un gruppo non lo è necessariamente per l’individuo. Ad esempio, un’analisi di gruppo su persone affette da depressione ha generalizzato uno stato di preoccupazione elevato per tutti i pazienti che ne facevano parte ma, quando lo stesso esame è stato applicato su ciascun individuo, i ricercatori hanno scoperto una grande variabilità di comportamenti: si passava da un’assenza di preoccupazione a dei livelli di angoscia ben al di sopra della media del gruppo. Inoltre, osservando la correlazione tra la paura e il suo evitamento – un’associazione comune negli studi di gruppo – gli scienziati hanno trovato che per molti individui la paura non causa il tentativo di evitare una determinata attività o viceversa.
Cosa significa tutto questo? Riferirsi ai dati raccolti in un gruppo – nelle scienze mediche, sociali e comportamentali – potrebbe portare a diagnosi e trattamenti non corretti in quanto non propriamente calibrati sulle differenze che intercorrono effettivamente tra individui. Aaron Fisher, autore dell’articolo, ha commentato: “La gente non dovrebbe perdere la fede nella medicina e nelle scienze sociali. Invece, dovrebbe vedere il potenziale del condurre studi scientifici come parte della routine di cura. È in questo modo che si potrà veramente personalizzare le medicina. Le moderne tecnologie dci permettono di collezionare tantissime osservazioni per ogni persona piuttosto facilmente e le moderne procedure di calcolo fanno sì che l’analisi di questi dati siano possibili in modi impensabili nel passato”. Non cambia, quindi, l’importanza della raccolta e del trattamento statistico dei dati; andrebbe modificata, invece, la direzione di tale processo: meglio analizzare un gran numero di valori ricavati dal singolo che procedere orizzontalmente, mediando ciò che si ricava da più pazienti.
Agnese Mariotti ci parla di disturbi mentali e nuove cure nel suo articolo “Depressione: verso la terapia personalizzata” che potrete leggere acquistandolo singolarmente o con il numero di aprile 2018 di Sapere.