Sono esposti al pubblico, riposti in appositi cassetti o ancora accatastati in depositi in attesa di essere catalogati e collocati. Stiamo parlando dei campioni appartenenti alle collezioni dei musei di storia naturale: resti di piante, animali e funghi raccolti da studiosi e appassionati nel corso dei secoli. La loro conservazione, la preservazione fisica al di là della digitalizzazione, è stata e sarà fondamentale non solo per continuare a descrivere la storia ed evoluzione degli esseri viventi ma anche per ricomporre i cambiamenti dovuti al riscaldamento globale, caratteristici dell’epoca geologica (non ancora riconosciuta ufficialmente) in cui stiamo vivendo: l’Antropocene.
Sono esposti al pubblico, riposti in appositi cassetti o ancora accatastati in depositi in attesa di essere catalogati e collocati. Stiamo parlando dei campioni appartenenti alle collezioni dei musei di storia naturale: resti di piante, animali e funghi raccolti da studiosi e appassionati nel corso dei secoli. La loro conservazione, la preservazione fisica al di là della digitalizzazione, è stata e sarà fondamentale non solo per continuare a descrivere la storia ed evoluzione degli esseri viventi ma anche per ricomporre i cambiamenti dovuti al riscaldamento globale, caratteristici dell’epoca geologica (non ancora riconosciuta ufficialmente) in cui stiamo vivendo: l’Antropocene.
Esemplari del passato per comprendere il futuro
In questo caso, ad aver dato voce alla necessità di impegnarsi nella protezione di questo immenso patrimonio, custodito nei musei di tutto il mondo, è stata la rivista Philosophical Transaction of the Royal Society B – Biological Sciences con un numero monografico intitolato “Biological collections for understanding biodiversity in the Anthropocene” (Collezioni biologiche per la comprensione della biodiversità nell’Antropocene). Come può un vecchio campione vegetale o animale essere la chiave per guardare al futuro, per trovare una soluzione ai problemi legati ai cambiamenti climatici? Emily K. Meineke, editor della monografia e ricercatrice post doc presso la Harvard University (Cambridge, Massachusetts, Stati Uniti), lo ha spiegato in un’intervista apparsa sul blog della Royal Society: “L’impulso dietro a questo numero monografico è che i campioni conservano dati unici per la comprensione di quanto gli esseri umani abbiano cambiato la biosfera. Le collezioni di storia naturale abbracciano un arco di tempo che parte da oggi e arriva a prima dell’accelerazione dei cambiamenti climatici e quindi contengono informazioni peculiari sui processi biologici per i quali non possediamo riferimenti, per esempio la diffusione di specie invasive, l’esposizione all’inquinamento, l’interazione con nuove specie. La nostra speranza è che questa pubblicazione stimoli un utilizzo più esteso dei campioni per la ricerca di base e quella applicata”.
Alcuni possibili studi innovativi sulle collezioni
Come è riportato in un articolo della Harvard Gazette, dedicato allo stesso argomento, più di un secolo fa, quando botanici e zoologi raccoglievano campioni di flora e fauna su campo, non potevano assolutamente immaginare che un giorno gli scienziati sarebbero stati capaci di estrarre il DNA di quei resti per ricostruire le relazioni che intercorrono tra le diverse specie di esseri viventi. Scienza e tecnica continuano a progredire e le collezioni potranno dare risposte a nuovi quesiti, se interrogate in maniera innovativa e creativa. Un esempio è un nuovo metodo per studiare la diversità microbica dalle collezioni museali: i microbiomi (insieme dei microrganismi, dei loro genomi e delle interazioni che essi stabiliscono in un determinato ambiente) delle piante possono influenzare aspetti essenziali della biologia dei vegetali ma poco si sa della loro distribuzione nella storia del nostro pianeta. Ecco che un erbario diviene una risorsa che può aiutare i botanici a capire come le comunità microbiche rispondano a rapide variazioni del clima dovute all’attività umana. Un altro caso, citato da Emily Meineke, è quello del ripristino degli habitat: “Potete immaginare un campione di una pianta che contenga dati sulle passate comunità vegetali, sulle interazioni con altre specie, e sulla tempistica di fioritura e di fruttificazione che possa direttamente fornire informazioni su dove introdurre determinate piante”.
Conservare (e non solo digitalizzare) prima che sia troppo tardi
Come riportato nell’introduzione della monografia, negli ultimi anni i ricercatori hanno iniziato a digitalizzare le collezioni e a sfruttare queste “teche virtuali” per i propri studi. Tra le iniziative citate c’è la digitalizzazione di 5,4 milioni campioni di piante vascolari del Muséum national d’Histoire naturelle di Parigi. Collezioni come questa coprono intervalli di tempo e estensioni geografiche tali da dare agli studiosi opportunità senza precedenti per collaborazioni tra discipline e istituzioni. Il virtuale, però, non è certo un sostituto del reale, così come ha sottolineato la Meineke: “Specialmente nell’età della digitalizzazione, possiamo fotografare un campione e trascrivere dei metadati sul dove e quando è stato raccolto e così si ha una rappresentazione online del campione stesso e in tal modo le istituzioni potrebbero pensare di poter buttar via le collezioni per investire spazio e tempo da qualche altra parte. Quando accade qualcosa come la tragedia in Brasile, avere la rappresentazione digitale di un campione è grandioso, almeno si hanno ancora alcuni dei dati disponibili. Ma la digitalizzazione non conserva il DNA o tutte le complesse misure che si possono ottenere della morfologia di un organismo, per questo stiamo cercando di rendere centrale il tema del campione fisico quale oggetto su cui è necessario concentrarsi e che bisogna salvaguardare”.
Vi interessa approfondire il tema del riscaldamento globale? Per farlo, acquistate e leggete l’articolo di Michela Pacifici, “Influenza dei cambiamenti climatici sul rischio di estinzione”, pubblicato nel numero di Sapere di ottobre 2016.