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18 Lug 2019

Qual è la differenza tra whiskey e bourbon? Lo spiega la chimica

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Scotch, bourbon, singolo malto, blended, torbato. Come districarsi in questa giungla alcolica? Un gruppo di ricercatori della University of California, Davis, ha dimostrato che è possibile identificare univocamente le differenti tipologie di whiskey grazie alla chimica. I risultati raggiunti sono stati presentati al 246° National Meeting & Exposition of the American Chemical Society.

Scotch, bourbon, singolo malto, blended, torbato. Come districarsi in questa giungla alcolica? Un gruppo di ricercatori della University of California, Davis, ha dimostrato che è possibile identificare univocamente le differenti tipologie di whiskey grazie alla chimica. I risultati raggiunti sono stati presentati al 246° National Meeting & Exposition of the American Chemical Society.

 

Whiskey e bourbon: qual è la differenza?

 

Come riporta l’articolo dello Smithsonian Magazine dedicato a questo particolare studio, i dati ottenuti potrebbero rispondere a un quesito che arrovella gli amanti di liquori da molto tempo: qual è esattamente la differenza tra whiskey e bourbon?
Prima ancora di parlare del lavoro degli studiosi, possiamo iniziare con il dire che, da un punto di vista storico e legislativo, il bourbon è sempre un whiskey e non tutti i whiskey sono bourbon. Come precisa un articolo pubblicato su Live Science, secondo le regole commerciali, il whiskey americano è un distillato preparato da cereali fermentati e solitamente invecchiato in botti di quercia. Ciascun tipo richiede differenti ingredienti e diversi processi di distillazione, tutti regolamentati.
Il bourbon, invece, è il whiskey statunitense più famoso, tradizionalmente distillato nell’area di Bourbon County, nel Kentucky. Se prima il requisito fondamentale era l’origine geografica, ora – secondo la legge – possono essere chiamati bourbon anche liquori prodotti in altre regioni degli Stati Uniti che seguano una ricetta specifica. Prima di tutto deve essere preparato a partire da un misto di cereali in cui almeno il 51% sia granoturco. Utilizzando come misura della gradazione alcolica il proof, la quantità di etanolo contenuto in una bevanda alcoolica che corrisponde circa al doppio della percentuale alcolica volumetrica, il bourbon deve essere distillato a un massimo di 160 proof, imbottigliato almeno a 80 e messo a invecchiare in botte a non più di 125 proof. Deve essere invecchiato in botti nuove, in legno di quercia affumicato.

 

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La combinazione di composti chimici è una vera carta d’identità

 

Di whiskey ce ne sono tantissimi tipi e distinguere gli uni dagli altri non è un’impresa semplice. Sembra però che, come per altre sostanze, l’impronta digitale sia nascosta nei composti chimici contenuti in questi liquori e nelle loro quantità. I scienziati hanno tentato di determinare le differenze chimiche di 60 diversi whiskey: 38 straight bourbon, 10 rye whiskey, 5 Tennessee whiskey e 7 altri americani, di età che variava tra i 2 e i 15 anni. Ciò che è stato trovato è l’espressione della complessità di questi alcolici: più di 4000 differenti composti non volatili (ad esempio tannini e acidi grassi) tra i diversi campioni analizzati.
Tom Collins, il ricercatore che ha guidato il gruppo della University of California, Davis, ha spiegato: “Ci sono composti che provengono dalla botte, come ci potevamo aspettare, ma ce ne sono anche altri legati ai cereali che sono impiegati per preparare i distillati in fase iniziale – quindi il granoturco e il grano e la segale che sono fermentati per dar vita al distillato. Abbiamo visto che alcuni composti sembrano connessi ai cereali e ci sono anche componenti che probabilmente derivano dal lievito usato per la fermentazione”.
Tra tutte queste molecole ricavate dai diversi campioni, ci sono sovrapposizioni tra un whiskey e l’altro. La vera impronta digitale è data non solo dalla presenza o meno dei composti ma anche, e soprattutto, dalla loro concentrazione. Si ottiene così una carta d’identità di questi alcolici che ci permette di identificare con sicurezza uno scotch da un bourbon e così via, semplicemente analizzandoli chimicamente.

 

Quando la chimica rispecchia l’aroma

 

Gli scienziati sono pronti a passare alla fase successiva di questo studio: collegare le differenti molecole alle differenze sensoriali riguardanti aroma e sapore. Naturalmente, i ricercatori sono abbastanza sicuri che non sarà difficile trovare questo legame: “Penso – essendo un chimico – che le differenze sensoriali provengano dalla chimica”, ha evidenziato Collins. Un esempio sono i composti che si formano quando il distillato viene fatto invecchiare in botti affumicate. La componente sensoriale che percepiamo con l’olfatto, che noi associamo al legno bruciato, sarà legata alle molecole che il whiskey avrà estratto a stretto contatto con il legno.
Ma a cosa servirebbe, in ambito pratico, conoscere questi legami? L’interazione tra chimica e aroma può essere di enorme aiuto per i produttori che cercano di mettere a punto i loro whiskey per far sì che racchiudano la perfetta miscela tra affumicato e speziato. Sarebbe uno strumento utilissimo, soprattutto nel caso di cambiamento dei processi di distillazione: sapere quali valori raggiungere di determinati composti costituirebbe una preziosa guida per non perdere il sapore caratteristico qualora si dovessero modificare processi e impianti.

 

La chimica è strettamente intrecciata con il mondo enogastronomico. Ce lo dimostra anche Hervé This nel suo libro, pubblicato da edizioni Dedalo, “La scienza in cucina”.

 

Credits immagine: foto di Felix Wolf da Pixabay

REDAZIONE
La Redazione del sito saperescienza.it è curata da Micaela Ranieri dal 2019, in precedenza hanno collaborato Stefano Pisani e Alessia Colaianni.
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