Romanzi e pellicole di fantascienza sono stati spesso la scintilla creativa che ha spinto team di scienziati verso progetti ambiziosi che, con grandi investimenti di risorse, hanno portato il futuro nelle nostre case. Nonostante decenni di ricerche, c’è qualcosa che gli studiosi non sono ancora riusciti a riprodurre: si tratta di ologrammi tridimensionali, simili a quello che compare nel primo episodio di Star Wars. Si tratta dell’ormai iconica proiezione della Principessa Leia che chiede aiuto a Obi-Wan Kenobi, coraggioso cavaliere Jedi e ultima speranza di salvare la galassia dai seguaci del Lato Oscuro della Forza. Qualcosa di molto somigliante a quell’immagine mostrata dal piccolo robot R2-D2 (C1-P8 nella versione italiana) è stata da poco ricreata nei laboratori della Brigham Young University, a Provo, nello Utah.
Romanzi e pellicole di fantascienza sono stati spesso la scintilla creativa che ha spinto team di scienziati verso progetti ambiziosi che, con grandi investimenti di risorse, hanno portato il futuro nelle nostre case. Nonostante decenni di ricerche, c’è qualcosa che gli studiosi non sono ancora riusciti a riprodurre: si tratta di ologrammi tridimensionali, simili a quello che compare nel primo episodio di Star Wars. Si tratta dell’ormai iconica proiezione della Principessa Leia che chiede aiuto a Obi-Wan Kenobi, coraggioso cavaliere Jedi e ultima speranza di salvare la galassia dai seguaci del Lato Oscuro della Forza. Qualcosa di molto somigliante a quell’immagine mostrata dal piccolo robot R2-D2 (C1-P8 nella versione italiana) è stata da poco ricreata nei laboratori della Brigham Young University, a Provo, nello Utah.
Ologrammi, difficile arrivare ai livelli di Star Wars
Gli ologrammi hanno un grande difetto rispetto a quello che crediamo possano essere: non sono immagini tridimensionali osservabili da ogni angolazione. La tecnologia che si cela dietro un ologramma crea immagini 3D inviando luce attraverso una superficie 2D contenente un reticolo di diffrazione. Quest’ultimo manipolerà il percorso dei raggi di luce, la cui interferenza creerà la percezione di un’immagine avente profondità.
Un’altra soluzione potrebbe essere la realtà aumentata ma necessita sempre di particolari visori e un gran numero di dati.
Una nuova tecnologia basata sulla fotoforesi
Daniel Smalley e il suo gruppo di ricerca descrivono nell’articolo pubblicato su Nature un altro modo per creare proiezioni 3D, il volumetric display. Questa tecnologia sfrutta il fenomeno della fotoforesi, grazie al quale una piccola particella che fluttua in aria può essere manipolata con un intenso fascio di luce. In questo caso Smalley e i suoi colleghi hanno utilizzato un laser nel violetto a malapena visibile, controllato da specchi, per intrappolare piccole particelle di cellulosa (con diametri che andavano dai 5 ai 100 micrometri) e muoverle molto velocemente nello spazio. Lo spostamento rapido è stato illuminato da laser colorati, rendendolo così visibile all’occhio umano. Con un moto delle particelle abbastanza veloce, all’osservatore apparirà un’immagine ferma, contemplabile da qualsiasi angolazione.
Non solo messaggi da “una galassia lontana lontana”
Quali possono essere le applicazioni dei volumetric display (a eccezione dell’invio di messaggi in galassie lontane lontane)? Ad esempio, una visualizzazione in tre dimensioni di questo tipo può fornire un grande aiuto nella preparazione di medici prima di operazioni chirurgiche complesse o, in aviazione, per fornire attrezzature che controllino il traffico aereo con mappe visive più accurate e intuitive che mostrino come i velivoli si stanno spostando nei pressi di un aeroporto. Ma, per tutto questo, dovremo aspettare ancora un po’.
Al contrario di quella appena descritta, a volte una ricerca può risultare inutile. È il caso degli studi premiati con gli IgNobel, di cui ci parla Stefano Pisani nella rubrica Dissaperi del numero di dicembre di Sapere.