Alcune eruzioni hanno cambiato la storia della vulcanologia, altre il mondo. Tutte sollecitano un’analisi delle catastrofi che prescinda dal qui e ora.
Il 2020 ci ha colto di sorpresa. Sapevamo, in teoria, che una pandemia era possibile, ma non eravamo preoccupati. Ci sembrava che la conoscenza fornisse un argine sufficiente a proteggerci e pensavamo alle epidemie come a una piaga di società meno evolute della nostra. Ci siamo scoperti vulnerabili e spaesati, di fronte a una minaccia che ci spaventa e allo stesso tempo ci pare inverosimile. Questo sgomento per un evento funesto che trascende le nostre aspettative è forse l’aspetto caratteristico delle catastrofi.
Vulcani imprevedibili
La catastrofe travolge e coglie sempre di sorpresa. Anche quando è annunciata, difficilmente si manifesta proprio come la si immagina.
La vulcanologia ce lo mostra spesso. Quarant’anni fa, il 18 maggio 1980, il vulcano St. Helens, negli Stati Uniti, ha generato una delle eruzioni vulcaniche più famose della storia geologica recente [1]. Prima dell’eruzione, il vulcano è una montagna da cartolina: a riposo da oltre un secolo, con la cima imbiancata dal ghiaccio, avvolto dalla foresta di abeti di Douglas, è una popolare meta turistica e sede di una fiorente industria del legname. È però uno dei vulcani più attivi degli USA occidentali, e i primi segnali di un suo risveglio si registrano già dal 16 marzo, quando l’unico sismometro in un raggio di 50 km rileva una modesta attività sismica. Dopo una decina di giorni si osservano le prime, piccole esplosioni. Che il vulcano si stia preparando a una nuova fase eruttiva è ben chiaro a chi lo sorveglia. La risalita di magma a livelli molto superficiali è resa evidente non solo dall’attività sismica, che si intensifica, ma anche dalla pronunciata deformazione del versante settentrionale. Ci si prepara quindi all’eruzione, predisponendo una vasta area di rispetto attorno al vulcano e potenziando i sistemi di monitoraggio.
Ma il vulcano sorprende tutti: la mattina del 18 maggio l’intero versante della montagna frana verso valle, scatenando una gigantesca esplosione laterale. Non si era mai osservato nulla di simile. L’edificio vulcanico è sventrato, la grande foresta spazzata via. Le fotografie dei giganteschi abeti rovesciati come stuzzicadenti si trovano su ogni libro di vulcanologia pubblicato negli ultimi 40 anni. L’eruzione uccide 57 persone, fra cui il vulcanologo David A. Johnston, impegnato a misurare la deformazione del suolo. La maggior parte delle vittime si trova al di fuori dell’area di rispetto, considerata a rischio.
Il cratere del St. Helens sventrato dall’eruzione del 1980 (copyright USGS-Tom Casadevall).
L’eruzione del St. Helens segna un punto di svolta nella vulcanologia perché, per la prima volta, è stato possibile osservare e misurare strumentalmente il progressivo risveglio di un sistema vulcanico, dalla fase di quiescenza fino alla grande eruzione esplosiva. La nostra comprensione della pericolosità vulcanica deve molto a quanto si osservò allora. Ma questo evento descrive con chiarezza anche i due elementi che complicano la gestione delle emergenze vulcaniche: la difficoltà di identificare il momento esatto in cui l’eruzione avrà inizio, e l’incertezza nel valutarne la scala e dunque le effettive conseguenze. Al St. Helens, dopo mesi di precursori, gli eventi sono precipitati di punto in bianco, senza un crescendo graduale che possa indicare l’approssimarsi dell’esplosione. E nonostante ci si attendesse un evento esplosivo, e la frana fosse ritenuta probabile, nessuno ha potuto immaginare il distacco di mezza montagna, o anticipare la violenza dell’eruzione direzionale che ne è scaturita.
Valutare l’impatto di un evento catastrofico non è facile. Non si tratta solo di stimare quante persone o quanti chilometri quadrati di territorio saranno coinvolti. Spesso i grandi disastri naturali comportano una molteplicità di fenomeni concomitanti, ciascuno gravido di conseguenze. Si crea così una complicata concatenazione di eventi, di cui a fatica identifichiamo solo i primi passaggi. Questo effetto domino amplifica l’impatto e permette alla catastrofe di prolungare i suoi effetti nel tempo e di toccare territori anche lontanissimi da quello in cui si verifica.
L’impatto dell’eruzione del St. Helens sulla foresta. L’allineamento dei tronchi indica la direzione dell’esplosione, da sinistra verso destra. I due vulcanologi dell’USGS ritratti in basso a destra danno un’idea delle dimensioni dei tronchi.
L’anno senza estate
Nonostante il carattere esplosivo e la vasta eco mediatica, quella del St. Helens, con un volume eruttato di circa 1 km3, non è considerata una grande eruzione. L’eruzione del vulcano indonesiano Tambora, nel 1815, è un esempio migliore della complessità degli effetti di una grande catastrofe. Il volume eruttato in questo caso supera i 100 km3. Il costo umano è altissimo e le conseguenze trascendono la scala regionale. Il Tambora contribuisce a generare l’ultima grave crisi di sussistenza del mondo occidentale [2].
Questo grande vulcano (all’epoca, 4300 m di quota) si trova sull’isola di Sumbawa, nell’immenso arcipelago della Sonda. Al momento dell’eruzione, la vicina isola di Giava è sotto il governo britannico, mentre l’Europa è travolta dalle guerre napoleoniche. La situazione geopolitica è tale che quando si avvertono le prime esplosioni, a centinaia di chilometri di distanza, si pensa a colpi di artiglieria e ci si prepara a respingere un’offensiva militare. Ma l’attività vulcanica non tarda a farsi riconoscere. Testimoni sopravvissuti descrivono tre colonne infuocate che si sollevano dall’area craterica e si riuniscono a grande altezza formando un’unica colonna eruttiva; i flussi piroclastici, miscele di gas e ceneri, caldissime e veloci, sradicano alberi e scoperchiano i tetti delle case, trascinando con loro persone e animali. Il vulcano è descritto come una montagna di fuoco liquido che si estende in ogni direzione. Quando il materiale eruttivo si riversa in mare solleva un’onda di maremoto che spazza le coste. Isole galleggianti di pomici e tronchi, estese chilometri, intralceranno la navigazione per anni, anche a migliaia di chilometri di distanza.
L’impatto è catastrofico. L’isola non è più la stessa: il collasso dell’edificio vulcanico forma una grande caldera e la linea di costa è modificata dall’accumulo di depositi, talvolta spessi alcuni metri. Il numero delle persone uccise dall’eruzione varia fra 10000 e 12000, a seconda delle stime. Anche nelle zone risparmiate da flussi piroclastici e maremoto, la caduta di cenere distrugge i raccolti e contamina acqua e suolo. Chi non muore di fame si ammala facilmente e soffre di problemi respiratori, dovuti all’inalazione della cenere. Carestia e malattie mietono la maggior parte delle vittime, con stime che variano fra 38000 e 49000 morti. L’eruzione del Tambora è la più letale di cui si abbiano testimonianze, con un totale stimato di oltre 60000 morti [3].
La caldera del Tambora, in Indonesia. La grande depressione si è formata nel corso dell’eruzione del 1815, quando parte dell’edificio vulcanico è andato distrutto. Oggi il fondo della caldera ospita un lago effimero e alcune fumarole.
Ma le conseguenze dell’eruzione vanno oltre. L’altezza della colonna eruttiva consente a gas e ceneri di raggiungere la stratosfera (oltre i 15 km di quota). Qui, i composti dello zolfo formano un aerosol che modifica il modo in cui i raggi solari sono intercettati e riflessi dall’atmosfera, causando un raffreddamento della superficie terrestre. La posizione geografica del Tambora, vicina ai Tropici, consente la propagazione dell’aerosol su entrambi gli emisferi, rendendo globale l’impatto sul clima. Si stima che la temperatura media della Terra sia scesa di circa 1,5 °C. A peggiorare le cose, l’eruzione avviene durante un periodo di raffreddamento globale, verosimilmente legato agli effetti di un’altra grande eruzione, avvenuta nel 1809. Di questa eruzione sconosciuta mancano testimonianze dirette, ma tracce evidenti sono state rinvenute nelle carote glaciali di entrambi i poli. La rapida successione di due eruzioni in grado di iniettare zolfo a livelli stratosferici ha reso il periodo compreso fra il 1810 e il 1819 la decade più fredda degli ultimi 500 anni [4].
Gli effetti non tardano a farsi sentire in Occidente. Fin dall’estate 1815, albe e tramonti si tingono di colori spettacolari. Nel corso dell’anno successivo, una “nebbia”, asciutta e persistente, insiste sugli Stati Uniti orientali, senza che pioggia e vento riescano a dissolverla. La luminosità solare ne risulta ridotta al punto che a New York si riescono a osservare le macchie solari a occhio nudo. Ma è a partire dal giugno 1816 che basse temperature, piogge persistenti, neve e gelo causano la perdita dei raccolti in buona parte di Canada, Stati Uniti ed Europa. Il prezzo del grano raddoppia e alcuni Paesi bloccano le esportazioni. Molti animali di allevamento muoiono per mancanza di cibo. È l’anno senza estate: in Europa si registrano le temperature estive più basse mai registrate dal 1750, anno in cui iniziano misure sistematiche. Studi dendrocronologici (analisi dei cerchi dei tronchi degli alberi) confermano che il 1816 è uno degli anni più freddi degli ultimi 6 secoli. Il maltempo si abbatte su un’Europa stremata da 25 anni di guerre napoleoniche, che si chiudono a Waterloo, il 18 giugno 1815. Milioni di uomini congedati dagli eserciti si affacciano sul mercato del lavoro proprio quando la peggiore carestia del secolo determina una profonda depressione economica. Le campagne tedesche sono particolarmente colpite, così come la Svizzera. In molte zone d’Europa si verificano manifestazioni spontanee che talvolta sfociano in tumulti, spesso sedati con violenza. Le condizioni estreme e la mancanza d’igiene favoriscono il dilagare di epidemie in una popolazione malnutrita e vulnerabile. Secondo stime dell’epoca, 800000 persone si ammalano di tifo nella sola Irlanda, mentre 44300 muoiono per le conseguenze di carestia, dissenteria e febbre. Chi può abbandona ogni cosa ed emigra, spesso verso l’America del Sud.
Ex-voto che raffigura l’emigrazione di cittadini di Friburgo, da Estavayer-le-Lac verso il Brasile, avvenuta il 4 luglio 1819 (copyright Musée d’art et d’histoire Fribourg, Francesco Ragusa, 2018).
Un mondo fragile
La vulcanologia ci dice che le grandi eruzioni possono avere conseguenze che trascendono i confini nazionali e possono influenzare le sorti di regioni estese fino alla scala planetaria. Oggi abitiamo un mondo più popolato, più complicato, più interconnesso di quello che ha vissuto l’eruzione del Tambora. Valutare gli effetti che oggi avrebbe un’eruzione simile è estremamente complicato.
Da un lato, disponiamo ormai di conoscenze e tecnologie che permettono di riconoscere tempestivamente i precursori e adottare misure di mitigazione del rischio; dall’altro, l’incertezza nel valutare il decorso di una crisi vulcanica rimane alta, e paradossalmente siamo più esposti e vulnerabili di un tempo. Oggi, milioni di persone vivono in aree potenzialmente pericolose, e decidere un’evacuazione, in condizioni di grande incertezza, può diventare un incubo logistico, economico e politico, con pesanti ricadute sociali. Anche dove le persone possono essere messe in sicurezza, rimane difficile mitigare gli effetti della caduta di cenere, che toccano la salute delle persone, le colture, la qualità delle acque, gli impianti industriali, il traffico veicolare, ferroviario o aereo. Una piccola eruzione, come quella del 2010 dell’Eyjafjöll, in Islanda, è stata in grado di influenzare il traffico aereo europeo per settimane.
La ricerca in ambito vulcanologico studia i meccanismi che portano all’innesco delle grandi eruzioni esplosive. La mitigazione dei loro effetti, quando è possibile, richiede un’analisi più estesa, che comprenda le complesse implicazioni sanitarie, sociali, economiche, e politiche. È necessario un approccio transnazionale che combini competenze di tipo diverso, consenta di condividere risorse ed elabori soluzioni adattabili su scala locale, regionale e continentale. Le Nazioni Unite hanno istituito un ufficio per la riduzione del rischio da disastri (UNDRR) per pianificare e promuovere strategie che rendano le comunità più sicure e resilienti. Ma servono interventi anche a livello locale, e individuale.
Se non vogliamo farci sorprendere dalla prossima catastrofe annunciata (il cambiamento climatico?), dobbiamo in primo luogo riconoscere che siamo vulnerabili. Siamo una società, fragile e frammentata, in cui nessuno può salvarsi da solo, ma ciascuno può contribuire alla salvezza collettiva. Serve calibrare meglio aspettative e bisogni individuali, ricucire un tessuto sociale sfibrato e costruire reti solidali che facilitino lo scambio di idee, conoscenze e risorse.
Abitiamo un piccolo mondo: quel che accade altrove ci riguarda, sempre. Esserne consapevoli, e farsene carico, non garantirà la salvezza dalla prossima catastrofe. Ma è l’unica, piccola àncora che abbiamo a disposizione per cercare di non essere travolti.
L’ERUZIONE DEL ST. HELENS Il risveglio del St. Helens è sancito da piccoli terremoti registrati il 16 marzo 1980. Il 27 marzo alcune esplosioni formano un pic-colo cratere nella calotta glaciale che ricopre il vulcano. Nel giro di una settimana, il cratere raggiunge i 400 m di diametro ed è interessato da due siste-mi di fratture. La frequenza delle esplosioni cala fino a fermarsi il 22 aprile, per riprendere il 7 maggio. Dal 7 al 17 maggio si registrano oltre 10000 terremo-ti. Nel frattempo, il magma risale e si accumula sotto la superficie causando una deformazione del fianco settentrionale del vulcano. Il versante si sposta all’incredibile velocità di 2 metri al giorno, fino a formare un rigonfiamento di 140 m. Il 18 maggio, alle 8:32, un terremoto di magnitudo 5.1 si origina al di sotto del vulcano. Il versante deformato scivola a valle, formando la più grande frana osservata sulla terraferma. Un volume di roccia di 2,5 km3 si muove allungandosi per 23 km lungo il fondovalle (per confronto, la frana del Vajont del 1963 ha mosso 0,26 km3 di roccia). La frana scoperchia il sistema mag-matico: l’improvvisa decompressione del magma ne causa la frammentazione esplosiva. Il materiale viene espulso orizzontalmente a una velocità di 480 km/h. È la prima eruzione laterale mai osservata e devasta un’area di circa 600 km2. Solo dopo, sul cratere si solleva una grande colonna eruttiva che raggiunge i 24 km di altezza. Questa fase dell’eruzione dura 9 ore. Parte del materiale eruttato si riversa lungo i fianchi formando flussi piroclastici che si propagano per 8 km, con velocità fra 80 e 130 km/h. 520 milioni di tonnellate di cenere sono trasportate verso est dai venti dominanti. La cenere oscura il cielo fino a 400 km di distanza e in 15 giorni completa il giro del mondo. La ricaduta al suolo interessa diversi Stati americani e parte del Canada ed è osservata fino a 1500 km di distanza. L’eruzione causa la fusione della calotta glaciale del vulcano: l’acqua di scioglimento, carica di ceneri e detriti, for-ma pericolose colate di fango, che distruggono strade e ponti fino a 80 km di distanza dal vulcano.
L’ERUZIONE DEL TAMBORA Dopo migliaia di anni di quiete, il risveglio del vulcano Tambora dura circa tre anni, con brontolii e piccole emissioni di ceneri. L’eruzione vera e propria inizia la sera del 5 aprile 1815 con esplosioni avvertite a centinaia di chilometri di distanza e lo sviluppo di una colonna eruttiva alta 33 km. Dopo qualche giorno di pausa, l’attività riprende la sera del 10 aprile, con maggior violenza. Le esplosioni scuotono gli infissi delle finestre sull’isola di Giava, e vengono avvertite distintamente anche a Sumatra, a 2000 km di distanza. La colonna eruttiva raggiunge l’incredibile altezza di 43 km. Una fitta pioggia di ceneri interessa un’area vasta centinaia di chilometri quadrati, che rimane avvolta nell’oscurità per un paio di giorni. Il deposito che si accumula sui tetti causa numerosi crolli, anche a Bima, distante 85 km. La ricaduta di ceneri fini interessa un’area vasta 980000 km2. Parte del materiale eruttato si riversa lungo i fianchi del vulcano, formando flussi piroclastici che distruggono i due villaggi più vicini, Sanggar e Tambora. Il rapido svuotamento della camera magmatica determina il collasso dell’edificio vulcanico: si forma una grande caldera di 6 km di diametro, profonda 1 km. Il vulcano, che arrivava a 4300 m, oggi ha una quota massima di 2850 m. Quando i flussi piroclastici raggiungono il mare sollevano un’onda di maremoto che investe tutte le coste limitrofe. L’eruzione principale dura tre giorni. Le esplosioni continuano, con minore violenza, fino al 15 luglio 1815.
Riferimenti bibliografici
[1] R. SCANDONE, L. GIACOMELLI, “18 Maggio 1980, Mt. St. Helens: un’eruzione che ha cambiato la storia della Vulcanologia”, blog INGVvulcani, 18 maggio 2020.
[2] J.D. POST, The Last Great Subsistence Crisis in the Western World, The Johns Hopkins University Press, Baltimore-London 1977.
[3] C. OPPENHEIMER, “Climatic, environmental and human consequences of the largest known historic eruption: Tambora volcano (Indonesia) 1815”, Progress in Physical Geography, 27, 2, 2003, pp. 230-259.
[4] J. COLE-DAI et al., “Cold decade (AD 1810-1819) caused by Tambora (1815) and another (1809) stratospheric volcanic eruption”, Geophysical Research Letters, 36, 2009.