Vi sono persone che ancora oggi studiano per realizzare il moto perpetuo, arrivando persino a presentare domande di brevetto. Anche a me sono talvolta pervenuti schemi di macchine perpetue isolate, con annessa sfida a spiegarne l’impossibilità.
Un esempio di moto perpetuo?
Una volta, ad esempio, venne a trovarmi in studio un tale che mi sottopose il marchingegno qui illustrato.
Alcune sferette di ferro, perfettamente levigate, vengono lasciate cadere nel braccio di destra di un condotto ad anello.
Per gravità, esse acquistano velocità così da risalire nel braccio di sinistra. Nella salita, esse sono favorite da una calamita che le attira nella zona di campo magnetico più intenso. Passato il magnete, il condotto penetra in una regione schermata dal campo grazie a un opportuno materiale (segreto dell’inventore). Qui le sferette sono libere di allontanarsi dalla calamita, acquistano velocità e ripetono il ciclo. L’idea era che il magnete fosse in grado, senza apporto energetico dall’esterno, di far recuperare alle sferette la perdita di velocità causata dagli attriti. Il visitatore affermava di aver realizzato la macchina ma lamentava il fatto che dopo breve tempo le sferette finivano per arrestarsi, accumulandosi tutte sul fondo del condotto.
Cosa c’era di errato nell’idea? Se è vero che nella fase ascendente delle sferette il campo magnetico, attirandole, fornisce loro energia cinetica, è altrettanto vero che le sferette la consumano nel lavoro per uscire dalla zona di campo. Se così non fosse, a giro completato l’energia complessiva del sistema dovrebbe risultare accresciuta, il che contrasterebbe con il principio di conservazione dell’energia (Primo Principio della Termodinamica). C’erano inoltre le altre inevitabili perdite di energia per il riscaldamento delle sferette dovuto alle correnti di Foucault, ovvero correnti elettriche indotte dalle variazione temporali del flusso magnetico.
Il moto perpetuo di prima specie
Il sistema proposto dal lettore era un esempio di moto perpetuo di prima specie. Una delle tante possibili varianti, se vogliamo, dell’antico metodo della catena di Stevin, dal nome del fisico olandese che nel Seicento ne dimostrò l’impossibilità. Si ha una collana di sfere eguali, collegate da tratti di filo, e disposte attorno a un cuneo triangolare nel modo mostrato in figura.
Il moto perenne si sarebbe avuto perché le sfere sul lato destro sono sempre più numerose di quelle sul lato sinistro quindi, pesando di più, fanno scorrere la catena in senso orario (le sfere sottostanti, per simmetria, non alterano gli equilibri). Poiché la catena è chiusa il moto non avrà mai fine e potrà attivare una qualsiasi macchina senza consumi. È alquanto ovvio che nessuno era (ed è) mai stato in grado di mostrare una macchina del genere in funzione, ma a quel tempo il metodo sperimentale non era tenuto in gran conto e fu necessaria la dimostrazione geometrica di Stevin per convincere gli ingenui: sul lato destro si hanno più sfere semplicemente perché è più lungo del sinistro, quindi meno inclinato. Ma – come mostra il riquadro in figura – la forza che tira un corpo verso il basso su un piano inclinato è soltanto la componente del peso diretta lungo il piano stesso. Semplici considerazioni trigonometriche mostrano subito che le forze complessive sui due lati sono esattamente eguali e contrarie.
Il moto perpetuo di seconda specie
In tempi più recenti, con l’arrivo delle macchine termiche capaci di trasformare calore in lavoro, i motori, l’idea del moto perpetuo conquistò nuovi fautori. Nacquero così progetti di macchine ipoteticamente capaci di produrre lavoro convertendo interamente in energia meccanica il calore tratto da una sorgente calda, senza quindi pagare prezzi e garantendo il rispetto del principio di conservazione (moto perpetuo di seconda specie). Anche questo però è impossibile perché contraddice il Secondo Principio della Termodinamica.
Per funzionare, un motore di automobile non richiede solo la sorgente calda, che è la camera di combustione, ma anche una seconda sorgente, questa volta fredda: il radiatore permette la dissipazione di quella parte del calore di combustione che per il Secondo Principio non può essere trasformata in lavoro. In termini di rendimento, la conversione del calore in lavoro non può mai essere del 100%, anche nel caso di motori ideali totalmente privi di attriti.
Un tipico ragionamento dei sostenitori di questo secondo tipo di moto perpetuo è il seguente. Gli oceani sono un enorme magazzino di calore; possiamo allora costruire una nave che prelevi calore dal mare, lo converta in energia meccanica con cui far girare l’elica, e infine riversi l’acqua raffreddata di nuovo nel mare. Il Primo Principio della Termodinamica sarebbe salvo, non così il Secondo. Una nave, infatti, utilizza il mare solo come sorgente fredda – l’equivalente dunque del radiatore dell’automobile – in cui riversare quella parte dell’energia termica estratta dalla sorgente calda (il motore diesel o la caldaia a vapore) che non è convertibile in energia meccanica.