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31 Lug 2019

Ebola, i sintomi e le origini di un’emergenza internazionale

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Il suo nome ufficiale è “malattia da virus Ebola”, ma tutti la chiamano semplicemente Ebola. Questa famosa quanto terribile malattia è di nuovo un’emergenza internazionale, come ha dichiarato poche settimane fa l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

Il suo nome ufficiale è “malattia da virus Ebola”, ma tutti la chiamano semplicemente Ebola. Questa famosa quanto terribile malattia è di nuovo un’emergenza internazionale, come ha dichiarato poche settimane fa l’Organizzazione Mondiale della Sanità.

 

Uno spaventoso virus chiamato Ebola

 

Inizia con un po’ di febbre o un mal di testa, e qualche volta si fanno sentire dolori muscolari e mal di gola. Sembra poco più di una forte influenza ma presto si rivelerà qualcos’altro. Compare la diarrea acquosa: le feci sono talmente liquide che sembrano acqua, un sintomo tipico del colera. La malattia, però, è ancora un’altra. Le cellule del fegato iniziano a morire e si formano dei piccolissimi trombi all’interno dei vasi sanguigni. Questo fenomeno, detto coagulazione intravascolare disseminata (CID), impegna e consuma quelle molecole che servono per fermare le emorragie. Paradossalmente, quell’inutile eccesso di coaguli farà sì che laddove si apra una ferita, anche microscopica, il sangue sgorghi senza freni. Colorerà le urine, arrosserà gli occhi, fuoriuscirà dalle gengive e, nei casi più gravi, colerà dagli orifizi. La forte perdita di liquidi, a causa delle emorragie e della diarrea, porterà allo squilibrio degli elettroliti, i sali presenti nel nostro sangue, e quindi a gravi scompensi, che condurranno l’ammalato alla morte.

 

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Il caso zero: quando un giovane preside iniziò a tremare

 

Se si rabbrividisce solo a leggerne i sintomi, si può immaginare lo sconcerto dei medici e degli scienziati che, per la prima volta, si imbatterono in questa terribile malattia. Tutto cominciò in due piccoli villaggi, uno in Sudan e uno nello Zaire, oggi chiamato Repubblica Democratica del Congo. Era il 26 agosto del 1976 quando il preside quarantaduenne di una scuola del piccolo villaggio di Yambuku si presentò all’ospedale della missione con tremori e febbre. Era stato per due settimane nel Nord dello Zaire e dichiarò di aver mangiato antilope e carne di scimmia affumicata. I medici lo trattarono subito con clorochina e antipiretici, i farmaci contro la malaria. La febbre inizialmente si abbassò ma dopo una settimana ritornò, stavolta accompagnata dagli altri sintomi: l’intestino sanguinava. Non ci è dato di sapere la sua sorte e nelle settimane successive molti pazienti dello stesso ospedale iniziarono a morire di una strana sindrome emorragica. Solo dopo qualche tempo qualcuno intuì la causa del contagio: gli ammalati avevano ricevuto iniezioni con gli aghi usati per trattare il preside. In quel periodo le siringhe non erano usa e getta: erano di vetro e venivano sterilizzate insieme dopo ogni uso. Quella volta, però, furono solo sciacquate e più di 120 persone furono infettate.

 

La scoperta del virus

 

Anche una suora belga ricevette un’iniezione, forse di antibiotici. Si ammalò e fu trasportata a Kinshasa, la capitale dello Zaire dove, il 28 settembre 1976, poco prima che morisse, le fu prelevato un altro campione di sangue. I medici sospettavano la febbre gialla, un’altra malattia comune in quella zona, e spedirono il campione di sangue, insieme a uno di fegato, all’Istituto di Malattie Tropicali di Antwerp, in Belgio. La provetta arrivò rotta ma gli scienziati riuscirono a utilizzarne il materiale e osservare cosa vi fosse al suo interno grazie al microscopio elettronico. Un virus, un filovirus, chiamato così perché sembra un filo raggomitolato su se stesso, molto simile al virus Marburg, già isolato in precedenza. Tuttavia, gli anticorpi specifici contro il Marburg non riconoscevano il virus della suora: si trattava di un nuovo patogeno e bisognava dargli un nome. È uso comune chiamare il virus col nome del luogo di provenienza ma Karl Johnson, direttore della Commissione Scientifica internazionale, non volle coinvolgere il piccolo villaggio di Yambuku. A circa 60 chilometri scorreva un fiume, chiamato dagli indigeni Legbala e deformato dai francofoni in Ebola. Quello divenne il nome del virus.

 

Ebola oggi: l’OMS dichiara lo stato d’emergenza internazionale

 

Dopo più di quarant’anni Ebola continua a preoccupare. Nei giorni scorsi, il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreysus, ha dichiarato che l’epidemia di Ebola – che da circa un anno sta imperversando nella Repubblica Democratica del Congo (proprio l’ex Zaire) – è un’emergenza di salute pubblica di interesse internazionale. “È tempo che il mondo prenda atto e raddoppi gli sforzi. Dobbiamo lavorare insieme e solidalmente con la Repubblica Democratica del Congo per porre fine a questa epidemia e costruire un sistema sanitario migliore”. Una dichiarazione che fa eco alle parole del ministro della salute ugandese Jane Ruth Aceng: “Ebola è ora una realtà che è in mezzo a noi e le nostre strategie rimangono la prevenzione, la diagnosi precoce e le azioni appropriate”.
Ad oggi non esiste un trattamento specifico: sono stati provati alcuni farmaci poi rivelatisi inefficaci. Le terapie di supporto, comunque, hanno contribuito ad abbassare di molto la letalità della malattia, potenzialmente in grado di uccidere il 95% degli infetti. È necessario anche adottare protocolli sicuri per l’assistenza, e persino per la sepoltura, degli ammalati.
Dal canto suo, la comunità scientifica lavora senza sosta. Un vaccino, chiamato rVSV-ZEBOV e usato sperimentalmente durante l’epidemia congolese, ha protetto circa il 97,5% delle persone a cui è stato somministrato.
Ma non basta. L’OMS si è detta delusa dai ritardi nei finanziamenti pubblici e ha chiesto di evitare ripercussioni economiche o, peggio, la chiusura dei confini delle aree interessate. Serve impegno e l’ultima cosa di cui hanno bisogno le aree colpite è l’isolamento. E che il mondo le abbandoni al loro destino.

 

Incuriositi dai virus? Allora acquistate e leggete l’articolo “Influenza: storia naturale di un virus trasformista” di Mauro Delogu e Claudia Cotti, pubblicato nel numero di giugno 2015 di Sapere.

 

Immagine di copertina: l’immagine è stata catturata al microscopio elettronico a scansione e raffigura il virus Ebola che fuoriesce dalla superficie di una linea cellulare utilizzata in una coltura cellulare (nello specifico una linea di cellule epiteliali del fegato di un cercopiteco grigioverde (Chlorocebus aethiops)). Credits: NIAID (CC BY 2.0)

REDAZIONE
La Redazione del sito saperescienza.it è curata da Micaela Ranieri dal 2019, in precedenza hanno collaborato Stefano Pisani e Alessia Colaianni.
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