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gennaio-febbraio 2020

L’industria chimica e la Shoah

di Massimo Trotta, chimico e membro dell’editorial board di Sapere

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Esplorare il legame profondo tra la Germania nazista e l’industria chimica consente di riflettere ancora oggi sul rapporto tra scienza, etica e politica, nonché sull’inferno che l’uomo è capace di creare per i suoi stessi simili.

 

Se la prima vittima della guerra è l’innocenza, come afferma Oliver Stone nel suo Platoon, la seconda è certamente la verità. Avevo immaginato di scrivere una dettagliata descrizione del perché i negazionisti della Shoah siano in malafede e di come i “fatti chimici” da loro sostenuti siano solo notizie false e tendenziose. Ho addirittura letto uno dei libri più citati a sostegno di questa campagna di discredito della storia, e alla fine mi sono reso conto che anche le poche parole fin qui spese offrono troppa visibilità ai revisionisti. La verità è che la Germania nazista ha sterminato nel solo campo di Auschwitz-Birkenau 1,1-1,5 milioni di esseri umani. Molti di questi erano ebrei secondo un progetto a lungo pianificato per lo sterminio del popolo ebraico.
Sarà quindi un racconto di come la chimica e la follia del nazismo e del pangermanesimo si siano incontrati [1].

 

Una doverosa premessa

 

La chimica è una scienza formidabile, un volano di sviluppo, una freccia verso il progresso. La chimica è la scienza della trasformazione, quella che ci spiega perché e come alcuni reagenti si trasformano in prodotti che possiamo progettare quasi a nostro piacimento. È la scienza che riesce a trovare l’innovazione che migliora decisamente la vita del genere umano. Nel 1910 Fritz Haber, insignito poi del premio Nobel nel 1918 per la sua scoperta, mise a punto la sintesi dell’ammoniaca a partire dall’azoto atmosferico. Una rivoluzione tecnologica che consentì allora e consente oggi la produzione dei fertilizzanti e che ebbe come conseguenza quasi immediata il crollo delle vittime delle carestie nel mondo. Lo stesso Fritz Haber, convinto nazionalista tedesco, si applicò però con gran lena alla messa a punto delle armi chimiche che furono usate con terribile successo dall’esercito tedesco il 22 aprile 1915 nell’attacco alla città di Ypres. Dalle stelle dell’interesse per l’umanità agli inferi delle carneficine!
Pietro Nenni diceva che le idee camminano sulle gambe delle persone. Lo stesso accade per la chimica, le reazioni camminano sulle gambe dei chimici. Dire che la chimica è responsabile dei massacri della guerra chimica o delle tossicodipendenze è come dare la colpa di un incidente mortale causato dalle gomme lisce alle aziende che producono copertoni e non al cattivo comportamento di chi ha mancato nella manutenzione dell’autovettura.

 

Serendipità, industria chimica e asservimento al potere

 

Sin dalla fine dell’Ottocento i chimici combinano la capacità di sintetizzare molecole con l’uso di materiali di scarto, preferendo fra questi quelli che rappresentano un rischio per l’ambiente. William Perkin, chimico britannico, era intenzionato a produrre il chinino – farmaco fondamentale per il trattamento della malaria – a partire dall’anilina, una molecola che veniva estratta dai residui di lavorazione del catrame di carbone. Lavorando nel suo laboratorio privato, Perkin nel 1856 sintetizzò per caso una sostanza viola intensamente colorata che chiamò mauveina. La mauveina è il primo colorante artificiale e segna la nascita della chimica organica e l’ingresso della chimica nel mondo della moda.

 

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Frammento di seta tinto con la mauveina.

Nonostante il grande successo commerciale dei coloranti, l’industria chimica non decollò nel Regno Unito. Fu la Germania a conquistare il primato della sintesi organica grazie alle enormi quantità disponibili di catrame da carbone (soprattutto nella valle della Ruhr, nell’ovest del Paese, dove creava anche un problema ambientale). L’industria chimica tedesca fu inoltre piuttosto vivace in termini imprenditoriali e, a partire dagli inizi del Novecento, iniziò a raggrupparsi in consorzi, fino alla costituzione, nel 1926, di un’unica grande industria chimica nazionale, la Interessen-Gemeinschaft Farbenindustrie AG (più nota come IG Farben) in cui confluirono BASF, Bayer, Hoechst, Agfa, Chemische Fabrik Griesheim-Elektron e Chemische Fabrik vorm.
L’industria nazionale tedesca aveva subìto gravi perdite dopo la Prima guerra mondiale, ma la IG Farben riuscì a mantenere il proprio fatturato – che anzi crebbe – affacciandosi al cancellierato di Adolf Hitler in condizioni più che floride. La situazione però era complessa. Carl Bosch, l’ingegnere che guidava la IG Farben e che aveva ricevuto il premio Nobel per la Chimica nel 1931, aveva assunto un enorme rischio nel costruire un impianto in Belgio per la produzione di combustibile attraverso la procedura di idrogenazione dei lavorati dell’industria estrattiva del carbonio. Il combustibile prodotto nell’impianto di Leuna costava almeno cinque volte più di quello ottenuto dal petrolio, per esempio, negli Stati Uniti. Inoltre la IG Farben era sotto il tiro del partito nazionalsocialista la cui forza elettorale appariva inarrestabile, per il corposo contingente di lavoratori ebrei. Da capitano di industria e poco prima delle elezioni del 1932, Bosch chiese e ottenne un incontro della sua dirigenza aziendale con Hitler per presentare il progetto di idrogenazione del carbone. Quest’ultimo, sorprendentemente informato, mostrò grande interesse, sottolineandone l’importanza per rendere la Germania energeticamente autosufficiente. Le elezioni del 1932 si risolsero in un parlamento tedesco spezzettato e incapace di formare un governo stabile. Le nuove elezioni del marzo 1933 consentirono a Hitler di diventare cancelliere e a quel punto Bosch dovette incontrarlo in modo ufficiale, concordando che il supporto del cancelliere al progetto del carburante sintetico non sarebbe mai mancato. Ma Hitler impose di cacciare dalla IG Farben tutti gli scienziati e i lavoratori ebrei e – obtorto collo e non senza opporsi – Bosch dovette cedere. Fra le vittime delle leggi razziali, anche l’inventore della sintesi dell’ammoniaca Fritz Haber, che morì in disgrazia l’anno successivo.

 

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Estratto dei verbali del Processo di Norimberga.

 

Nonostante le leggi razziali pesassero sulla capacità produttiva della IG Farben, la vicinanza con il regime crebbe fino a rendere l’enorme industria chimica la più grande finanziatrice del partito nazista. Ciò diede grandi vantaggi a entrambe le parti. L’esercito tedesco godeva delle forniture della fiorente IG Farben e quest’ultima acquisiva – con metodi spicciativi quanto quelli di Hitler – nuove aziende. All’indomani dell’annessione dell’Austria nel 1938 la IG Farben si appropriò della Skoda Werke Wetzler, la principale industria chimica austriaca. La medesima cosa accadde all’industria chimica Aussinger Verein in Cecoslovacchia e poi in Polonia nel 1939 dove il colosso – ormai completamente organico al nazismo – si impossessò di tre industrie: Boruta, Wola e Winnica.

 

Auschwitz e la perdita dell’innocenza

 

Nel cuore della Seconda guerra mondiale le mire pangermaniste ed espansioniste di Hitler avevano aperto contemporaneamente tre fronti di guerra, Polonia, Francia e Gran Bretagna, estremamente costosi in termini di materie prime e di carburanti. La macchina nazista si quietò temporaneamente per insistenza dei generali che – prima di affrontare la campagna di Russia – richiedevano scorte in quantità sufficienti a battere l’Armata Rossa. Era necessario un corposo piano di approvvigionamento per munizioni, combustibili e gomma che necessitava della costruzione di nuovi grandi impianti chimici in tempi stretti.
La scelta dei siti di produzione fu affidata a Otto Ambros, esperto nella produzione del polibutadiene, una gomma sintetica ottenuta dalla polimerizzazione del butadiene (abbreviato in Bu) attraverso un catalizzatore al sodio (simbolo chimico Na) [2], fondamentale nella produzione di pneumatici per il trasporto di rifornimenti e truppe. La scelta era ristretta a due siti simili, il primo in Norvegia e il secondo nella regione della Slesia in Polonia, sostanzialmente equivalenti: miniere di carbone nelle vicinanze che assicuravano rifornimento di materie prime, acqua in abbondanza per gli usi industriali grazie alla presenza di fiumi e una rete di autostrade e di linee ferroviarie che assicuravano facilità di trasporto di merci e uomini.

 

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Il sito di Auschwitz-Birkenau.

 

La vera differenza la fece, come al solito, il danaro, lo “sterco del demonio” secondo Saulo di Tarso. Nella Slesia, in prossimità del futuro sito industriale, esisteva già un piccolo campo di prigionia che le SS avevano deciso di ampliare e che avrebbe fornito forza lavoro gratuita all’impianto BuNa (o Buna). Per l’IG Farben significava un risparmio immediato di almeno 5 milioni di marchi per la costruzione degli acquartieramenti dei lavoratori, oltre agli stipendi. Era deciso, il nuovo stabilimento sarebbe stato costruito ad Auschwitz, in un distretto popolato da circa 25 000 abitanti di cui, come riportano le relazioni dei sopralluoghi, «solo 2000 di razza Germanica e 7000 ebrei».
Nella Slesia, a sud della Polonia, quasi a ridosso delle odierne Repubblica Ceca e Slovacchia, scorre il fiume Soła che nasce dai Carpazi e si getta nella Vistola. Il campo Auschwitz I, il sito originale delle SS, sorge proprio lungo la linea ferroviaria che collega Praga e Vienna a Cracovia. La piccola stazione di Oświęcim (Auschwitz in polacco) dista poco meno di 5 km dal sito industriale. Le condizioni al contorno erano quindi perfette, ma bisognava fare in fretta, la campagna di Russia era alle porte. La IG Farben intravedeva nell’espansione a est, verso le Repubbliche socialiste dell’URSS, un nuovo enorme mercato per il polietilene e i carburanti: il guadagno potenziale poteva essere strabiliante.

 

Abbraccio mortale

 

Il connubio con il nazismo diventò indissolubile e il colosso chimico si compromise irrimediabilmente chiedendo a Hermann Wilhelm Göring di fornire fra gli 8000 e i 12 000 lavoratori a basso costo per la costruzione del sito. Seguendo la catena di comando, fu Heinrich Himmler a ordinare alle SS del campo Auschwitz I «di mettersi in contatto con i responsabili della costruzione dell’impianto per aiutare il progetto per mezzo dei prigionieri del campo di concentramento in ogni modo possibile». L’accordo prevedeva il pagamento di tre marchi al giorno per ciascun lavoratore; quattro per quelli con esperienza e un marco e mezzo per i bambini. Soldi – sia chiaro – da pagare alle SS.
Nonostante gli sforzi delle SS per fornire materiale umano per la costruzione del sito, i progressi risultavano lenti poiché i metodi brutali utilizzati con i prigionieri risultavano controproduttivi. Questo rappresentò il punto di svolta: con quasi un miliardo di marchi investiti nel progetto, la IG Farben aveva bisogno di tempi certi e compì un ulteriore passo verso l’abisso, decidendo di costruire il proprio campo di prigionia proprio accanto alla fabbrica. Nell’estate del 1942 viene quindi completato il sito di Auschwitz III a Monowice gestito dalla IG Farben, in perfetta sintonia con i metodi delle SS.

 

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L’arrivo del treno con i deportati all’interno del campo di Auschwitz-Birkenau, 1944.

 

Nel frattempo aveva iniziato a funzionare a pieno regime il campo Auschwitz II-Birkenau, dove erano state costruite le camere a gas e i forni crematori per la cosiddetta “soluzione finale” del problema ebraico. La presenza del sito di Birkenau rappresentava un problema pratico per il rifornimento della forza lavoro: i manager del sito Buna lamentavano che in alcune occasioni oltre l’80% dei circa 5000 deportati ebrei che arrivavano alla stazione di Auschwitz III venivano portati alle camere a gas e solo il 20% inviati al sito di Monowice, un numero decisamente insufficiente. Così la discesa agli inferi si fece sempre più profonda e la IG Farben ottenne che i deportati arrivassero direttamente alla stazione di Dwory, accanto all’impianto industriale. La selezione dei prigionieri ebrei da tenere in vita veniva svolta dal personale dell’IG Farben e la percentuale dei lavoratori selezionati, i quali affrontavano una vita di stenti che gli stessi medici del campo prevedevano non sarebbe durata oltre i tre mesi, salì al 50%. Circa 25 000 deportati lavorarono fino alla morte per la IG Farben [3].

 

Häftling 174 517

Racconta Primo Levi di essere partito dal campo di Fossoli il 21 febbraio 1944, di essere salito in treno a Carpi e di essere arrivato ad Auschwitz dopo circa due settimane [4]. Primo Levi, ormai identificato dal tatuaggio 174 517, raggiunse la stazione della IG Farben e fu selezionato tra i pochi ritenuti adatti al lavoro – 96 uomini e 29 donne degli oltre 500 partititi da Fossoli – dove gli fu detto: «Siamo a Monowice, vicino Auschwitz… Questo è un campo di lavoro e tutti i diecimila prigionieri lavorano per una fabbrica di gomma chiamata la Buna». L’industria chimica tedesca incontrò così il chimico italiano.

 

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Etichetta dello Zyklon B.

 

«Mi sono laureato [in chimica] a Torino nel 1941, summa cum laude» rispose Primo Levi al chimico dei polimeri – Doktor Ingenieur Pannwitz – che lo interrogava per verificare che il prigioniero non millantasse la sua formazione. Promosso all’esame, Levi entrò a far parte del Kommando 98, il Kommando chimico. L’inverno del 1944 era ormai iniziato quando a Primo Levi e ad altri due prigionieri venne comunicato di essere stati selezionati per il laboratorio di analisi chimiche della Buna. Una insperata fortuna che immediatamente gli fece ottenere camicia e mutande nuove e un turno settimanale dal barbiere. In aggiunta, Levi racconta che «in laboratorio la temperatura è meravigliosa: il termometro segna 24 gradi».

 

Auschwitz e l’acido prussico

 

Durante i pochi momenti in cui aveva la possibilità di guardarsi intorno, Primo Levi poteva vedere dal sito Auschwitz III la ciminiera che torreggiava sul sito di Auschwitz II-Birkenau. A Birkenau erano destinati i deportati che non erano in grado di fornire forza lavoro per l’impianto Buna. Birkenau è il luogo dove la soluzione finale del problema ebraico raggiunse il suo apice, uno di quei luoghi in cui si può parlare di inferno sulla terra.
Nell’agosto del 1941, per velocizzare lo sterminio – che nel campo di Treblinka era già iniziato da tempo con l’uso di camere a gas a monossido di carbonio – il comandante Rudolf Höß decise di introdurre lo Zyklon B, nome commerciale dell’acido prussico (acido cianidrico nella corretta nomenclatura chimica) acquistandolo dall’azienda chimica Degesch, posseduta per il 42,5% dalla IG Farben. L’acido cianidrico era utilizzato in quantità moderate per il controllo dei parassiti dei prigionieri, ma era addizionato di un potente agente odorigeno richiesto per legge per avvertire del pericolo della presenza del composto chimico. Höß chiese invece alla Degesch di produrre il composto senza l’indicatore olfattivo per poterlo utilizzare senza scatenare il panico fra i deportati chiusi nelle camere a gas.
L’acido cianidrico (HCN) è una piccola molecola che, anche alle rigide temperature invernali della Slesia, può arrivare a concentrazioni circa mille volte più alte di quella mortale per un essere umano. L’avvelenamento è legato al fatto che HCN si lega all’enzima di membrana citocromo ossidasi (COX), coinvolto nella respirazione cellulare. In condizioni fisiologiche la COX si lega a una molecola di ossigeno e consente la formazione dell’ATP, la molecola energetica che assicura la sopravvivenza delle cellule. In presenza di HCN l’ossigeno non è più in grado di legarsi all’enzima, la cellula non produce più ATP e come immediata conseguenza va in ipossia, provocando il decesso dell’organismo. Purtroppo un metodo rapido ed efficace.

 

La banalità del male

 

Il pensiero di Hannah Arendt secondo cui il male si produce inconsapevolmente o per asservimento scricchiola già nel caso di Adolf Eichmann, ma certamente non regge per la IG Farben e per l’industria chimica coinvolta nello stretto abbraccio con il nazismo [5]. Si può essere inconsapevoli del fatto che i deportati non selezionati per il lavoro alla Buna saranno portati nelle camere a gas? Che i deportati che lavorano in condizioni disumane hanno un’aspettativa di vita di tre mesi? Che eliminare l’odore di avvertimento nello Zyklon B porti alla morte di chiunque sia esposto al gas letale?
Le reazioni camminano sulle gambe dei chimici, che sono consapevoli e responsabili delle loro azioni.
La IG Farben e i suoi dirigenti furono portati davanti alla Corte per i crimini di guerra di Norimberga, ma solo in dodici furono ritenuti colpevoli e condannati a pene irrisorie comprese fra uno e due anni. In un paio di casi, otto anni di carcere. Nulla in confronto ai loro crimini. Molti dei condannati ripresero una posizione di rilievo nelle aziende in cui la IG Farben venne smembrata a fine conflitto.

 

 

Riferimenti bibliografici
[1] W.B. SMITH, “Chemistry and the Holocaust”, Journal of
Chemical Education, 59, 10, 1982, pp. 836-838.
[2] P. REDONDI (a cura di), La gomma artificiale.

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