La storia dei coloranti sintetici inizia in Inghilterra nel 1856, ed è strettamente legata alla nascita della chimica come la intendiamo oggi. La novità rivoluziona prima il settore industriale e poi apre porte cruciali a diversi ambiti scientifici. Negli ultimi anni, però, l’attenzione si è spostata sull’impatto che i coloranti tessili hanno sull’ambiente.
William Perkin e il dibattito sulla chimica
In Inghilterra all’inizio del XIX secolo la chimica era considerata una scienza minore, non se ne coglievano i risvolti pratici e se ne studiava solamente la teoria. Per questo motivo, quando il giovane William Perkin decise di iscriversi al Royal College of Chemistry incontrò la disapprovazione della famiglia. Durante i suoi studi, insieme al suo compagno di corso Arthur Herbert Church, il ragazzo fece delle scoperte su alcune sostanze coloranti, ma i risultati vennero ignorati perché ritenuti inutili.
Il dibattito sulla chimica applicata era nel pieno del suo fervore e i pochi finanziamenti di chi aveva creduto nell’istituzione di laboratori pratici vennero tagliati. Ma August Wilhelm von Hofmann, professore di Perkin, era deciso a dimostrare il potenziale della disciplina. Secondo i suoi calcoli, partendo dal catrame utilizzato per l’illuminazione delle città sarebbe stato possibile rispondere a un’urgenza sociale: combattere la malaria.
I soldati inglesi, alle prese con l’espansione dell’Impero britannico in aree tropicali, contraevano la malattia e morivano. Il chinino, utilizzato all’epoca come cura, era molto costoso da ottenere dalla sua fonte naturale, la corteccia della pianta sudamericana Cinchona L. Hofmann propose quindi a Perkin di dimostrare come fosse possibile preparare la medicina manipolando materiali molto più facilmente reperibili. La sintesi era basata sull’impiego di anilina.
Gli esperimenti, però, non andarono come sperato, e Perkin si ritrovò con della polvere rossastra non meglio identificata. Ma era la sostanza giusta nelle mani giuste. Era il 1856 e da quell’errore la chimica avrebbe fatto un balzo in avanti.
La nascita dell’industria dei coloranti
Pochi scienziati avrebbero reagito all’insuccesso come fece Perkin. Egli decise di aggiungere dell’anilina alla sostanza ottenuta, purificare ed essiccare. Il composto nero così ricavato macchiava indelebilmente di viola e per il ragazzo, appassionato di coloranti, il fatto risultò estremamente interessante. Prese la decisione di nascondere l’accaduto agli accademici, poco ricettivi, e si rivolse direttamente ad alcune fabbriche.
Il colorante, brevettato con il nome di Mauve, ebbe un successo strepitoso: poteva essere prodotto a bassi costi nei laboratori di tutto il mondo, senza limitazioni dovute alle fonti naturali o ai trasporti. La tonalità malva, difficile da ottenere con i coloranti naturali, iniziò a spopolare nell’ambito della moda e fu possibile ammirarla indossata dalla Regina Vittoria e dall’Imperatrice Eugenia.
Il meccanismo di sintesi con l’impiego dell’anilina iniziò a diffondersi e nuovi procedimenti vennero scoperti. La gamma di colori ottenibili era esorbitante e, una volta trovato il modo di insolubilizzare le molecole, una grande quantità di pigmenti moderni rivoluzionò il mondo dell’arte. L’industria chimica iniziò la sua ascesa e il principio su cui la sintesi del era basato aprì le porte ad applicazioni nel campo della farmacologia e ai primi studi sulla chemioterapia condotti da Paul Ehrlich.
L’impatto ambientale dei coloranti
Ma l’industria dei coloranti sintetici ha anche un’altra faccia. La sua crescita globale ha prodotto grandi problemi ecologici. Durante le operazioni di colorazione vengono rilasciate enormi quantità di acque di scarico che, oltre ai coloranti sintetici, contengono reagenti chimici e metalli, usati come fissativi. Il colore degli scarti riversati nei mari e negli oceani interferisce con la penetrazione della luce all’interno dell’acqua. Questo fa sì che la fotosintesi degli organismi acquatici venga ostacolata, e che il livello di ossigeno da essi prodotto si abbassi, danneggiando l’intero biota.
Come se non bastasse, le acque residue nei Paesi in via di sviluppo vengono usate per l’irrigazione. È facile immaginare come i coloranti sintetici, tossici, mutageni e cancerogeni, entrino nell’organismo umano, accumulandosi proprio all’apice della catena alimentare secondo un processo di biomagnificazione.
Una soluzione definitiva sembra lontana. Il ritorno ai coloranti naturali non sarebbe di aiuto, perché non risolverebbe il problema dei metalli e dei reagenti chimici. Inoltre, anche le sostanze naturali possono essere tossiche e mutagene e l’effetto sulla fotosintesi degli organismi acquatici resterebbe invariato.
Diversi studi hanno proposto soluzioni basate sul biorisanamento e sulla degradazione fotocatalitica o ossidativa dei coloranti. Ma il problema è soprattutto nella produzione massiva e nella diffusione della cultura di abiti poco durevoli e a basso costo, che genera una richiesta spropositata e crea molti più rifiuti del necessario.