Nella società tecnologica contemporanea abbiamo sempre più bisogno di materiali e produciamo sempre più rifiuti, quindi si pone il problema di come preparare i primi e smaltire i secondi in maniera ecosostenibile. In entrambi i casi si devono condurre delle reazioni chimiche e per minimizzare l’apporto di energia necessario si utilizzano i catalizzatori. Tra i catalizzatori più studiati e impiegati ci sono i fotocatalizzatori che vengono attivati da luce di opportuna lunghezza d’onda. Poiché il sole è una fonte virtualmente inesauribile di energia luminosa a costo zero si capisce che la “rivoluzione verde” non può prescindere dalla produzione di fotocatalizzatori sempre più efficienti in grado di sfruttare la luce visibile.
A cosa servono i catalizzatori?
Facciamo un passo indietro per capire meglio perché utilizzare i catalizzatori, e in particolare i fotocatalizzatori.
Una qualsiasi reazione chimica, in cui una o più molecole (reagenti) si trasformano in altre molecole (prodotti) è spontanea se il livello energetico dei prodotti è più basso di quello dei reagenti. Non tutte le reazioni spontanee però avvengono nella realtà (o in tempi comodi) per via di una “collinetta energetica” che separa reagenti e prodotti e che viene chiamata energia di attivazione. Per accelerare una reazione ci sono dunque due strategie possibili: una è quella di fornire abbastanza energia ai reagenti (ad esempio scaldando il sistema), l’altra è quella di abbassare l’energia di attivazione. Questa seconda via, più elegante ed efficace, avviene grazie all’uso dei cosiddetti catalizzatori: specie chimiche che vengono aggiunte in piccole quantità, e che apparentemente non prendono parte alla reazione chimica perché non si accumulano né si consumano.
I catalizzatori possono essere della più svariata natura ma hanno la caratteristica comune di essere molto specifici per una particolare reazione, o al limite per un gruppo di reazioni simili. Anche se inconsapevolmente, l’uomo usa la catalisi chimica fin dalla Preistoria, in particolare per la produzione del vino: la reazione che porta alla trasformazione dello zucchero contenuto nel mosto in alcol (detta fermentazione) avviene grazie all’azione di enzimi contenuti nei microorganismi (tra cui il famoso Saccharomyces cerevisiae) che naturalmente albergano sui chicchi d’uva.
I fotocatalizzatori: cosa sono e perché sono importanti
In particolare i fotocatalizzatori – attivati da luce – costituiscono un tassello importante per la ricerca. I materiali più comunemente usati sono ossidi di metalli di transizione (TMO) quali TiO2, ZnO, CeO2, ZrO2, SnO2, CdS, ZnS. Una delle applicazioni più importanti di questi materiali è la degradazione di sostanze inquinanti, come i pesticidi che si accumulano nelle acque. La caratteristica comune di questi materiali è che sono dei semiconduttori in cui la banda di valenza (VB, dove sono presenti gli elettroni che tengono legati tra loro i nuclei degli atomi) e la banda di conduzione (CB, il livello energetico che permette agli elettroni di muoversi liberamente) sono separate da una banda proibita (band gap) in cui gli elettroni non possono trovarsi.
Quando il semiconduttore viene irradiato con della luce a energia sufficientemente alta, cioè pari o superiore all’entità del band gap, un elettrone della VB può assorbire l’energia del fotone e passare alla CB, lasciando una lacuna (o buca) nella banda di valenza, secondo l’equazione:
semiconduttore + hν → hvb+ + eCB–
Gli elettroni e le lacune così generate migrano poi alla superficie del materiale, dove reagiscono con le specie adsorbite: accettori o donatori di elettroni. In particolare, la lacuna hvb+ è un forte ossidante, che può ossidare direttamente il composto da degradare o reagire con donatori di elettroni come l’acqua o gli ioni idrossido per formare radicali idrossili. Anche l’eCB–, reagendo con l’ossigeno, porta alla formazione di radicali ossidrili. Questi ultimi reagiscono con la molecola da degradare causandone, nella maggior parte dei casi, la totale mineralizzazione, in condizioni di temperatura e pressione blande e senza nessun problema di smaltimento di rifiuti solidi.
Qual è l’energia necessaria per attivare i fotocatalizzatori?
La lunghezza d’onda (λ) corrispondente all’energia (E) necessaria per attivare i fotocatalizzatori sopra menzionati può essere calcolata attraverso la relazione E = hc/λ dove h è la costante di Planck e c è la velocità della luce. Ad esempio per la forma cristallina anatase di TiO2 con un band gap di 3.2 eV, λ = 390 nm, corrispondente alla radiazione ultravioletta (UV).
Di seguito vediamo uno schema di una particella di semiconduttore TiO2 attivato dalla radiazione UV e le successive reazioni che portano alla degradazione di una molecola inquinante adsorbita.
Illustrazione schematica di vari processi che si verificano dopo la fotoeccitazione di TiO2 puro con luce UV.
Fortunatamente per la nostra salute, gli UV rappresentano una piccola frazione dell’energia solare che raggiunge la superficie terrestre, ma ciò limita fortemente l’efficienza di questi catalizzatori. Un altro fenomeno che limita l’efficienza di fotocatalisi è la ricombinazione delle cariche fotoeccitate, illustrato sempre in figura.
La fotoattivazione con la luce visibile
Negli ultimi anni c’è stato quindi un notevole sforzo di ricerca volto a estendere nel visibile (λ = 400 – 700 nm) il range di lunghezze d’onda utili per la fotoattivazione in modo da avere a disposizione una maggiore energia totale.
Questo diventa particolarmente importante quando i semiconduttori vengono applicati sui materiali da costruzione per ottenere prodotti in grado di migliorare la qualità dell’aria degli ambienti interni, dove sono spesso illuminati da luci a LED che non emettono nell’UV. Diversi studi hanno dimostrato che l’attivazione con luce visibile può essere ottenuta attraverso la combinazione di TMO con nanoparticelle metalliche.
In generale, quando un metallo viene irradiato dalla luce, il campo elettrico oscillante mette in movimento gli elettroni di conduzione in maniera sincrona (coerente) dando origine al cosiddetto plasmone. Se il metallo ha dimensioni nanoscopiche, il plasmone è localizzato in superficie (abbreviato LSP) e ha due importanti caratteristiche:
– i campi elettrici vicino alla superficie della particella sono fortemente amplificati;
– l’assorbimento ottico della particella ha un massimo alla frequenza di risonanza del plasmone.
Per le nanoparticelle di metalli nobili, come l’argento o l’oro, la risonanza avviene nel visibile ed è responsabile dei colori brillanti delle soluzioni colloidali metalliche. Quando una di queste nanoparticelle metalliche viene accoppiata a un TMO, si è ipotizzato che l’irraggiamento provochi un trasferimento di energia e/o carica dal materiale plasmonico al vicino ossido aumentandone la reattività sotto luce visibile.
Effetto dell’adsorbimento di una nanoparticella plasomonica su TiO2.
Il meccanismo di funzionamento proposto è illustrato più in dettaglio nella figura qui sopra, dove si vede che l’adsorbimento di una nanoparticella plasmonica (ad esempio di argento) sul TiO2 introduce un ulteriore livello energetico, la cui transizione elettronica può essere eccitata con luce visibile. A seguito di fotoeccitazione, la nanoparticella dovrebbe iniettare elettroni nella banda di conduzione del TiO2 nella scala temporale dei femtosecondi. La buca positiva formata sulla nanoparticella ossida il substrato da degradare, mentre l’elettrone nella banda di conduzione di TiO2 reagisce ulteriormente con O2 portando alla formazione del radicale ossidrile, esattamente come avviene nel semiconduttore non funzionalizzato. Inoltre, la formazione di una barriera di potenziale all’interfaccia tra il metallo e il TMO ostacola la ricombinazione delle cariche, aumentando la loro probabilità di essere coinvolte nelle reazioni redox responsabili dell’attività catalitica.
L’attivazione del TMO può avvenire attraverso due ulteriori meccanismi: la conversione fototermica e il potenziamento fotonico i cui dettagli esulano da questa trattazione semplificata. Questi meccanismi devono ancora essere compresi e ottimizzati per sfruttare in modo efficiente i processi di trasferimento di energia e/o carica nelle varie applicazioni che sfruttano l’energia solare come la fotocatalisi o il fotovoltaico.
I fotocatalizzatori del futuro (e del presente)
Recentemente, uno studio congiunto condotto dal CNR, l’Università di Modena e Reggio Emilia, l’Università di Bologna e il Sincrotrone Elettra di Trieste ha permesso di fare un po’ di luce su questi meccanismi nel caso di CeO2 attivato con nanoparticelle di argento. Per l’eccitazione della nanoparticella è stata utilizzato un laser a elettroni liberi (FEL) capace di emettere impulsi estremamente brevi e intensi di raggi X, ideale per studiare processi dinamici molto veloci. Si è visto che in seguito alla fotoeccitazione delle nanoparticelle di argento con il FEL, la struttura elettronica degli atomi di Ce subisce un cambiamento ultrarapido, il cui segno e la cui ampiezza, osservati a diverse energie, dimostrano che il plasmone della nanoparticella fotoeccitata decade in un tempo brevissimo (meno di 200 fs) a seguito di un trasferimento di elettroni verso il semiconduttore, come ipotizzato.
Questo studio, pubblicato su Nano Letters, rappresenta quindi la prima dimostrazione diretta del trasferimento elettronico dalla nanoparticella metallica plasmonica al semiconduttore, alla base della fotoattivazione di quest’ultimo con luce visibile e pone le basi per ulteriori studi volti a una sempre maggiore ottimizzazione dell’attività fotocatalitica.

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