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23 Giu 2023

In fondo al mar: intervista a Enrico Bonatti

Andrea Pelfini

Andrea Pelfini
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Potrebbe essere un racconto di Edgar Allan Poe: tre uomini chiusi dentro un’angusta scatola di titanio che tanto ricorda una bara e gettati in uno sconfinato oceano dove, subito, iniziano ad affondare. L’acqua assorbe gradualmente le varie lunghezza d’onda della luce restituendo i colori dell’arcobaleno, dal rosso fino al blu, «un blu così intenso e puro che mai avevo visto in superficie» racconta Enrico Bonatti, docente di geologia marina a Miami e in numerose altre università statunitensi e italiane. Poi, all’improvviso, la luce sparisce, resta solo l’eterna notte, l’infinita oscurità delle profondità marine. E i tre uomini continuano a scendere, soli, per tre ore, fino a raggiungere i 6000 metri sotto il livello del mare, dove la missione scientifica può finalmente iniziare.

 

Come astronauti nello spazio

La drammatica vicenda del Titan, il piccolo sommergibile che avrebbe dovuto portare cinque persone nei pressi del relitto del Titanic, adagiato a 4000 metri di profondità, ha dato risalto a questa modalità di esplorazione sottomarina, forse la situazione, sulla Terra, più simile a quanto provano e vivono gli astronauti nello spazio.

Ma le vicende narrate da Bonatti non sono il parto della fantasia di uno scrittore come Jules Verne, sebbene uno dei due piccoli sottomarini con cui lo scienziato si è immerso si chiami Nautile, assonanza non casuale con il Nautilus del capitano Nemo di Ventimila leghe sotto i mari.

«La discesa avviene passivamente», dice Bonatti, anche autore per Edizioni Dedalo del libro Come nascono gli oceani, dove racconta proprio queste sue esperienze sui fondali marini. «La discesa avviene passivamente e dura tre ore, dove regnano il buio e il silenzio, tempo durante il quale le reazioni psicologiche sono ai limiti. Io, per esempio, ricordavo la mia fanciullezza, facevo ogni volta un viaggio dentro la mia storia personale di giovane uomo, dai momenti spensierati fino a quelli più intimi e dolorosi, come la scomparsa di mio padre».

Scendere, nella nostra cultura, porta sempre con sé un’accezione negativa: Dante, nella Divina Commedia, scende sottoterra per andare all’Inferno, mentre sale per andare in Paradiso. L’Ade pagano è sottoterra «e anche se sei uno scienziato, in quella situazione, vieni dominato da mitologie che poco hanno a che fare con la scienza», racconta ancora Bonatti. Ed è solo quando si arriva sul fondo, a migliaia di metri sotto la superficie dell’oceano, che i motori del piccolo sommergibile finalmente si accendono e con essi un potente faro che spezza l’oscurità degli abissi costringendoti, allo stesso tempo, a tornare uno scienziato e a fare il tuo lavoro, il motivo per cui sei laggiù.

 

Quella volta nello Stretto della Florida

«È sicuramente un’esperienza al limite, un misto tra tensione ed esaltazione, ma no, non ho mai provato davvero paura a scendere in fondo al mare, se non una volta» dice Bonatti. «Ci trovavamo nello Stretto della Florida e una società privata era stata incaricata di calarsi sul fondale per cercare degli importanti strumenti scientifici oceanografici che erano stati perduti. Avevano un posto libero e mi fu offerto. Ovviamente, accettai». Il sottomarino scese fino ai 400 metri di quel fondale, non molto profondo, e la missione fu un successo: tutta l’attrezzatura creduta persa venne recuperata.

Ma i problemi iniziarono dopo: «Quando fu il momento di iniziare le manovre di risalita, qualcosa andò storto, non so neanche cosa, ma per tre ore i piloti del sottomarino provarono a farlo ripartire, invano. Per tre ore rimanemmo bloccati sul fondale marino» racconta lo scienziato. «Per fortuna, ed è il motivo per cui sono qui a raccontarlo, i piloti riuscirono a far risalire il veicolo, ma furono ore di autentico terrore bloccato lì sotto».

 

Tra scienza e avventura

Ma perché fare queste missioni? Perché intraprendere queste iniziative senza dubbio rischiose?

«Per la conoscenza. Queste missioni, negli anni ’60 e ’70 del Novecento, ci hanno permesso di conoscere moltissime cose sulla Terra, il nostro pianeta, e sulla dinamicità delle fosse oceaniche, dove si continua a formare nuova roccia». È il periodo in cui vide la luce un’autentica rivoluzione scientifica: la tettonica a placche, che smentiva in modo definitivo l’antica idea di un pianeta statico, dimostrando, invece, la bontà delle teorie di Alfred Wegener e della sua deriva dei continenti.

«In fondo agli abissi è possibile osservare e raccogliere rocce freschissime, analizzare i flussi di calore che provengono dal mantello terrestre oppure studiare le esalazioni calde che rendono dinamici questi ambienti. Dobbiamo andarci e continuare ad andarci» conclude Enrico Bonatti. Ed è qui, in tutto ciò, che sta la nostra essenza, il nostro essere umani: superare le Colonne d’Ercole e inseguire la conoscenza, assecondare quella innata curiosità che ci porta a uscire di casa e a esplorare il mondo che ci sta intorno. Anche quello che si trova diversi chilometri sott’acqua, ben più affascinante e terrificante di un racconto di Edgar Allan Poe.

Andrea Pelfini
Andrea Pelfini
Ha studiato medicina, scienze politiche e scienze cognitive all’Università del Piemonte Orientale e all’Università degli Studi di Milano. Appassionato di saggistica e divulgazione scientifica, ha frequentato il master in comunicazione della fauna, dell’ambiente e del paesaggio dell’Università Insubria di Varese. Da molti anni alleva api, lavora come redattore di enigmistica, è tra i soci fondatori della società di comunicazione ambientale Ecozoica e racconta storie di natura e scienza sulla pagina Facebook “Storie di natura, scienza e bellezza”.
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