Uno dei ricordi che avrò di questo strano periodo è che vado in giro per casa vestito solo nella metà superiore. Capelli pettinati e camicia stirata sopra, pantaloni della tuta e pantofole sotto.
Uno dei ricordi che avrò di questo strano periodo è che vado in giro per casa vestito solo nella metà superiore. Capelli pettinati e camicia stirata sopra, pantaloni della tuta e pantofole sotto.
Più o meno tutte le mattine sono in video con i miei alunni, certe volte in diretta, altre in differita. Preparo magari due o tre videolezioni consecutive sullo stesso argomento, che poi caricherò in giorni successivi sulla nostra aula virtuale. E tra le mille cose di cui devo tener conto – cosa dire e come dirlo, come prevenire le domande di un certo alunno che so già che non capirà questa frase, come fare in modo che tutti capiscano ma i più bravi non si annoino, e poi: la telecamera, il livello del microfono, le impostazioni di rete, e poi ancora: dove scrivo, come lo scrivo, quando prendo il pennarello rosso e quando quello nero – una domanda preliminare mi mette particolarmente in crisi: come mi vesto? Nelle due ultime videolezioni avevo per caso sempre la stessa camicia, oggi non posso mica rimettermela. Però non posso mettere la camicia blu perché ho preparato le figure di cartoncino blu: allora dovrei rifarle col cartoncino giallo, o mettermi una camicia bianca. E mi affiorano i ricordi di quando lavoravo a Geo&Geo, e in studio si registravano anche quattro puntate di seguito, e tutti ci portavamo quattro pantaloni e quattro camicie. Qualcuno cambiava anche le scarpe. Ma oggi faccio talmente tante videolezioni una dopo l’altra che il mio guardaroba improvvisamente mi sembra minuscolo, e ho la sensazione di non avere mai niente di nuovo da mettermi.
Io insegno in una scuola media di un quartiere di Roma particolarmente variegato, così che tra i miei alunni ho seduti uno accanto all’altro i figli dei VIP e i figli dei migranti senza una vera e propria casa. Questo è molto bello, anche se è una sfida riuscire a parlare a tutti. Ma in classe, grazie soprattutto agli alunni stessi, in qualche modo ci riusciamo. E ora? Come fare una didattica che sia fruibile sia dalla ragazza con due genitori laureati a casa che la aiutano e un computer tutto per sé, sia da quella che vive in uno scantinato abusivo con quattro fratelli e un telefono senza connessione internet? Come posso chiedere di incoraggiare i figli a genitori rimasti entrambi senza stipendio che non sanno se, alla fine di questa crisi, ritroveranno il loro lavoro?
Siamo di fronte a un compito impossibile. La buona notizia è che ai compiti impossibili siamo abituati. E allora ci rimbocchiamo le maniche, e pian piano ci dedichiamo a ciascuno nel suo modo. Ho sempre creduto alla necessaria distanza tra professori e alunni, e anche tra professori e genitori. Il mio numero di telefono l’ho sempre custodito gelosamente e l’ho dato ad alcuni genitori solo quando la scuola mi ha chiesto di farlo (è stato il prezzo da pagare per fare una gita scolastica senza telefoni, e ne è valsa la pena). Ma oggi? Come posso parlare con alcuni di loro se non al telefono? Così pian piano molte barriere sono cadute, e mi ritrovo a passare ore a rispondere ai loro messaggi e a spiegare i compiti. Quando leggo delle proposte di prolungare l’anno scolastico oltre giugno mi prende un colpo. Il professore è così, deve adattarsi a essere sempre diverso a seconda del contesto. Ci è sempre stata richiesta una flessibilità fuori dal comune, anche nel mondo ante-coronavirus.
Allo stesso tempo, ogni tanto, penso al dopo. Come sarà il prossimo anno se saremo di nuovo in classe? Mi continueranno magari a chiamare al telefono per chiedere spiegazioni sui compiti? La certezza è che la vita del professore non sarà quella di prima. Del resto, il mondo stesso non sarà quello di prima. Ci abitueremo al nostro nuovo ruolo. Intanto un progetto io ce l’ho: non appena esco da questa clausura, mi compro dieci camicie nuove.