Sono un veterinario che per quasi vent’anni ha insegnato Patologia generale e Fisiopatologia veterinaria all’Università di Teramo. Per questo, mantenendo fede all’identità culturale appannaggio della categoria professionale cui mi vanto di appartenere, mi preme sottolineare che l’origine storica delle prime Facoltà di Medicina Veterinaria nel Vecchio Continente – nate in Francia e in Italia a partire dalla seconda metà del XVIII secolo – si deve alla peste bovina. Questa malattia, sostenuta da un virus imparentato con quello del morbillo e che illo tempore era causa di gravissime perdite fra le mandrie di mezza Europa, è stata dichiarata ufficialmente eradicata a livello globale nel 2011 – a distanza di 250 anni esatti dall’istituzione della prima Facoltà di Medicina Veterinaria, nel 1761 a Lione – grazie alle campagne di vaccinazione effettuate sulla popolazione bovina.
Analoga sorte è toccata al vaiolo, anch’esso debellato su scala planetaria nel 1980 grazie alle vaccinazioni di massa della popolazione umana.
Vaccino: la migliore arma contro le varianti del SARS-CoV-2
Ai giorni nostri il “nemico pubblico” da combattere si chiama SARS-CoV-2, il betacoronavirus che ha sinora mietuto oltre 5 milioni di vittime nel mondo. Gli efficaci vaccini di cui disponiamo a distanza di un solo anno dall’identificazione del virus (quasi un miracolo!) costituiscono, come è ben noto, una formidabile arma nel contrasto alla sua diffusione, in particolare a quella delle forme gravi e a esito letale.
Di contro, la mancata vaccinazione di ampie fette di popolazione, oltre a “mettere le ali” al virus (come sta avvenendo in diversi Paesi dell’Est Europa), si traduce di fatto in un accresciuto rischio di comparsa di nuove varianti, non di rado più contagiose o patogene rispetto a quelle circolanti, come chiaramente testimoniato dalle varianti delta, delta plus, lambda e mu, di gran lunga prevalenti e dominanti nella scena epidemiologica in molti Paesi, se non addirittura in interi continenti.
Il ruolo degli animali nella comparsa di nuove varianti
In un siffatto contesto, non andrebbe parimenti tralasciato il ruolo che gli animali potrebbero giocare nell’insorgenza di nuove varianti virali. Da un lato, infatti, il range delle specie suscettibili nei confronti dell’infezione da SARS-CoV-2 appare in progressiva espansione, come recentemente dimostrato dai cervi a coda bianca (Odocoileus virginianus) nella regione nord-orientale degli Stati Uniti d’America; dall’altro lato, l’emblematico precedente rappresentato dagli allevamenti intensivi di visoni nei Paesi Bassi e in Danimarca (di cui abbiamo parlato qui) – ove ben 17 milioni di questi animali sono stati abbattuti – dovrebbe essere adeguatamente enfatizzato. Nei visoni allevati in questi due Paesi è stata accertata già nel 2020, infatti, la presenza di una nuova variante di SARS-CoV-2, denominata cluster 5 e contraddistinta dalla mutazione Y453F a livello della glicoproteina spike, selezionata a seguito della pregressa acquisizione del virus umano da parte dei visoni, che gli animali avrebbero quindi “restituito” all’uomo.
Ricordiamolo, Historia magistra vitae! Facciamo tesoro degli insegnamenti della storia…