Un quoziente intellettivo alto è davvero sinonimo di genialità e successo? Spesso pensiamo che un’intelligenza al di sopra della media possa essere la carta vincente per una carriera professionale di alto livello e per un’esistenza di riconoscimenti. Ma cos’è l’intelligenza? Come si misura? È realmente il fattore decisivo per una vita d’eccellenza?
Un quoziente intellettivo alto è davvero sinonimo di genialità e successo? Spesso pensiamo che un’intelligenza al di sopra della media possa essere la carta vincente per una carriera professionale di alto livello e per un’esistenza di riconoscimenti. Ma cos’è l’intelligenza? Come si misura? È realmente il fattore decisivo per una vita d’eccellenza?
Cos’è l’intelligenza e cosa misurano i test?
L’intelligenza può essere definita come “l’abilità di risolvere problemi e di adattarsi e imparare dall’esperienza” (Santrock, 2008). Non è qualcosa di direttamente misurabile e, per far questo, sono necessarie prove indirette, provenienti da azioni e processi che le persone compiono. I test d’intelligenza sono nati proprio da questa esigenza anche se, nonostante lo sviluppo della psicologia, i risultati ottenuti sono sempre alquanto controversi. Il primo test di misurazione del quoziente intellettivo nacque in Francia, nel 1904, a opera dello psicologo Alfred Binet: l’allora Ministero dell’Istruzione chiese allo studioso di progettare un metodo che stabilisse quali studenti non fossero in grado di apprendere all’interno del sistema scolastico per poter regolamentare l’accesso nelle scuole speciali, istituti dedicati ad allievi disabili. Binet e il suo assistente, Theophile Simon, misero a punto un test composto da 30 compiti che andavano da toccarsi una parte del corpo su richiesta alla memorizzazione di schemi o alla definizione di concetti astratti. Il valore di QI (espressione introdotta nel 1912 da Stern, psicologo e filosofo) era, quindi, calcolato dividendo l’età mentale, il livello di sviluppo mentale di un individuo rispetto agli altri, per l’età cronologica, ossia l’età biologica, e moltiplicando il risultato per 100. Un bambino con un’età mentale pari a quella cronologica avrà un QI pari a 100.
Gli studi di Terman e Cox
Fu Lewis Madison Terman, professore di psicologia e pedagogia all’Università di Stanford, ad apportare modifiche al test di Binet basate sui progressi a cui la disciplina era andata incontro nel corso degli anni. Terman ebbe, però, un’altra idea: se invece di indagare i limiti inferiori dell’intelligenza – quello che era il compito originario della misurazione del QI – avessero iniziato a studiare gli individui più dotati? Magari avrebbero potuto capire se una persona particolarmente intelligente è destinata a diventare un genio. Questa ricerca e le vicende a essa legate sono state raccontate in un articolo della rivista Nautilus. Grazie al suo nuovo test, Terman selezionò 1528 tra ragazzi e ragazze, con un’età media di 11 anni, che furono soggetti a esami e misure fino a quando divennero adulti di mezz’età. Quali furono i risultati? I dati ottenuti furono pubblicati in un’opera monumentale in cinque volumi, Genetic Studies of Genius, e iniziarono a svelare la debolezza del legame tra QI, genio e successo: nessuno di questi giovani particolarmente dotati divenne un indiscusso genio e la loro intelligenza fu, invece, canalizzata in professioni ordinarie. Non è finita qui perché alcuni individui che erano stati sottoposti alla selezione e che avevano ottenuto un punteggio non abbastanza alto da entrare nella sperimentazione, avevano mostrato di poter toccare vette professionali ambiziose: gli esempi più eclatanti sono Luis Walter Alvarez e William B. Shockley, che hanno ricevuto il Premio Nobel per la Fisica rispettivamente nel 1956 e nel 1968. Catharine Cox, psicologa, ai tempi dottoranda di Terman, pensò di procedere per la via inversa: calcolò il quoziente intellettivo di grandi personaggi del passato, ricavando le informazioni necessarie dalle fonti documentali. Michelangelo, Isaac Newton, Napoleone e altri 298 “geni” mostrarono tutti QI stratosferici?
Il successo e la genialità non sono una pura questione di QI
Cox ottenne una correlazione statistica significativa tra i valori di QI e l’importanza dei personaggi analizzati ma, come sottolinea l’articolo di Nautilus, ci sono alcune problematiche che gettano l’ombra del dubbio su queste conclusioni. Prima di tutto la correlazione statistica è classificabile come moderata e ciò significa che ci sono parecchie eccezioni nella relazione tra quoziente intellettivo ed eccellenza. Anche il dominio in cui si è raggiunto il successo è rilevante, infatti alcuni ambiti sembrano essere meno influenzati dall’intelligenza di un individuo: è il caso della leadership militare in cui un QI alto non è sinonimo di doti di comando eccelse (Napoleone, con un QI pari a 145, sarebbe stato uno dei meno dotati nel gruppo selezionato nell’esperimento di Terman). Non dobbiamo dimenticare anche che i risultati di Catharine Cox sono stati ottenuti da test necessariamente differenti da quelli di Terman, misure da cui non era possibile capire la velocità di acquisizione delle abilità esaminate, attributo che è decisivo nella stima del QI.
Infine ricordiamoci sempre che la personalità e la perseveranza contano: la motivazione e l’ostinazione spiccano al di sopra di tutto. La stessa Cox, che aveva anche analizzato questo tipo di tratti, affermò: “Un’intelligenza alta ma non la più alta, combinata con il più elevato grado di perseveranza, raggiungerà riconoscimenti più grandi della migliore intelligenza con una lievemente minore ostinazione”. L’intelligenza non serve ad arrivare al successo se non c’è una grande forza di volontà e impegno.
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