La valutazione dello stato di coscienza in un paziente è un terreno minato. Ad oggi non abbiamo ancora stabilito con criteri oggettivi una definizione di “coscienza” e l’esame per misurarla consiste in un test effettuato dal personale medico direttamente sull’interessato, senza l’ausilio di una strumentazione e di risultati non strettamente legati all’interpretazione del singolo. Proprio alla luce di questo, gli scienziati stanno cercando da anni un modo di stimare lo stato di coscienza di una persona con nuove tecniche di analisi. In un articolo pubblicato sulla rivista Brain, la risposta sembra essere un algoritmo che passa in rassegna i segnali forniti da un elettroencefalogramma. Ma siamo pronti a far decidere a una macchina la condizione di vita o di morte di un essere umano?
La valutazione dello stato di coscienza in un paziente è un terreno minato. Ad oggi non abbiamo ancora stabilito con criteri oggettivi una definizione di “coscienza” e l’esame per misurarla consiste in un test effettuato dal personale medico direttamente sull’interessato, senza l’ausilio di una strumentazione e di risultati non strettamente legati all’interpretazione del singolo. Proprio alla luce di questo, gli scienziati stanno cercando da anni un modo di stimare lo stato di coscienza di una persona con nuove tecniche di analisi. In un articolo pubblicato sulla rivista Brain, la risposta sembra essere un algoritmo che passa in rassegna i segnali forniti da un elettroencefalogramma. Ma siamo pronti a far decidere a una macchina la condizione di vita o di morte di un essere umano?
Valutare lo stato di coscienza: un compito arduo
Nell’articolo divulgativo apparso su Scientific American, Sam Rose, l’autore, ha evidenziato quanto sia difficile definire lo stato di coscienza di un paziente in una condizione ai limiti, in cui la persona non è lucida ma non ancora in coma. Per questo tipo di diagnosi i medici possono adoperare la Scala di Glasgow, la quale fornisce un metodo pratico per la valutazione dei danni subiti a livello cerebrale in risposta a determinati stimoli. Proposta negli anni Settanta da un gruppo di neurochirurghi dell’Università di Glasgow, è stata inizialmente applicata in casi di trauma cranico per poi essere estesa anche a pazienti più gravi, fino ad arrivare al monitoraggio dei degenti in terapia intensiva. La scala si basa sulla risposta a tre tipi di stimoli, oculari, verbali e motori, e all’assegnazione del relativo punteggio per poter infine definire la gravità della lesione cerebrale. Questa modalità di indagine può essere influenzata dall’interpretazione di chi la effettua: il paziente è in uno stato minimo di coscienza, in cui vi è possibilità di recupero, o è in uno stato vegetativo (sindrome da veglia aresponsiva) in cui le azioni sono giudicate casuali e le speranze di miglioramento vengono meno? Il rischio di diagnosi errata è, purtroppo, molto alto.
I primi esperimenti utilizzando le macchine: la PET
E se si cercassero tracce di coscienza direttamente nel cervello? I ricercatori hanno studiato, per decenni, come tecniche di scansione quali la PET (Tomografia a Emissione di Positroni) e la fMRI (Risonanza Magnetica Funzionale) potessero essere impiegate per l’analisi di quelli che sono i confini dello stato di coscienza. In uno studio del 2014, le immagini ottenute con la PET hanno mostrato che il cervello può rispondere a segnali in alcuni pazienti, fornendo una diagnosi errata di stato vegetativo. Inoltre, pazienti con una scansione più “attiva”, sono risultati quelli con una maggiore probabilità di recupero significativo. Però la strumentazione per questo tipo di esame, utilizzabile in caso di dubbi sullo stato di coscienza di un paziente, non è presente in tutti gli ospedali, è costosa, e i dati ricavati sono soggetti ad artefatti e sono di difficile interpretazione. Un’alternativa più accessibile è l’EEG, l’elettroencefalografia.
Il machine learning applicato agli elettroencefalogrammi
L’elettroencefalografia è un esame che, attraverso alcuni elettrodi posizionati sul cuoio capelluto, misura l’attività elettrica cerebrale, riproducendola sotto forma di una serie di onde su uno schermo. Nell’articolo pubblicato su Brain è descritto un algoritmo di machine learning capace di distinguere uno stato vegetativo da uno di minima coscienza utilizzando le registrazioni dell’EEG.
Nel nuovo studio, un gruppo di ricercatori del Pitié-Salpêtrière Hospital di Parigi ha collezionato gli elettroencefalogrammi di 268 pazienti a cui è stata diagnosticata la sindrome da veglia aresponsiva o uno stato minimo di coscienza. La misura è stata effettuata prima e dopo un’attività di ascolto progettata per rilevare l’elaborazione cosciente di suoni. A DOC-Forest, l’algoritmo di machine learning, sono stati dati da “macinare” dozzine di differenti aspetti delle informazioni raccolte dall’EEG. I risultati sono stati incoraggianti, con tre diagnosi appropriate su quattro. In seguito DOC-Forest è stato testato in scenari reali, non tradendo le aspettative.
Questa, quindi, potrebbe essere una valida metodologia diagnostica: i dati degli elettroencefalogrammi sono complessi e contengono numerose dimensioni (ad esempio il tempo, la frequenza, le condizioni presenti durante l’esame e il posizionamento dei sensori) tra cui una macchina riesce ad orientarsi e che è in grado di analizzare contemporaneamente, senza pregiudizi legati all’interpretazione e comunicazione. L’algoritmo è stato, però, progettato a partire dalle diagnosi umane, effettuate sull’attuale (e lacunosa) conoscenza di cosa sia la coscienza. Alla luce di tutto questo, siamo pronti ad affidargli delle scelte mediche così delicate? In attesa di ulteriori progressi nelle neuroscienze, potremmo propendere ancora una volta per una collaborazione uomo-macchina, in cui quest’ultima sia un supporto per neurologi ancora inesperti.
Ancora nuove tecniche diagnostiche nell’articolo di Giovanna Fragneto, “I neutroni al servizio della medicina”, che potrete leggere acquistandolo singolarmente o con il numero completo di Sapere di agosto 2018.