Un reperto incredibilmente completo, rinvenuto in Etiopia, che potrebbe riscrivere la storia dei nostri lontani antenati, gli australopitechi. È un cranio di Australopithecus anamensis di 3,8 milioni di anni fa, un predecessore della più famosa Lucy, piccola esemplare di Australopithecus afarensis. Abbiamo scritto “predecessore” ma potremmo in parte sbagliarci: proprio questa scoperta potrebbe dimostrare che le due specie di australopitechi sono convissute per un certo periodo. Come è avvenuto questo ritrovamento e perché è così importante per ricostruire la storia dell’evoluzione umana?
Un reperto incredibilmente completo, rinvenuto in Etiopia, che potrebbe riscrivere la storia dei nostri lontani antenati, gli australopitechi. È un cranio di Australopithecus anamensis di 3,8 milioni di anni fa, un predecessore della più famosa Lucy, piccola esemplare di Australopithecus afarensis. Abbiamo scritto “predecessore” ma potremmo in parte sbagliarci: proprio questa scoperta potrebbe dimostrare che le due specie di australopitechi sono convissute per un certo periodo. Come è avvenuto questo ritrovamento e perché è così importante per ricostruire la storia dell’evoluzione umana?
La scoperta in Etiopia e le analisi (anche italiane) sul cranio
Gli scavi del sito di Woranso-Mille, nella regione di Afar, in Etiopia, sono iniziati nel 2014 e molti altri fossili sono stati riportati alla luce prima di questo reperto chiave, chiamato dagli scienziati MRD: oltre 12.600 esemplari appartenenti a circa 85 specie di mammiferi, tra cui fossili riconducibili a circa 230 esemplari di ominini (sottofamiglia degli ominidi di cui fanno parte i generi Gorilla, Homo e Pan, gli scimpanzé) vissuti tra 3,8 e 3 milioni di anni fa.
È nel 2016, però, che Ali Bereino, un lavoratore locale, in un’area distante pochi chilometri da quella del rinvenimento di Lucy avvenuto nel 1974, scorge il primo frammento di MRD: una mascella superiore. Da quel momento c’è stato un lungo lavoro di scavo e analisi che ha portato alla pubblicazione del lavoro pubblicato la scorsa settimana su Nature.
C’è anche lo zampino italiano nello studio del primo cranio fossile del più antico degli australopitechi. Stefano Benazzi e Antonino Vazzana del Dipartimento di Beni culturali dell’Università di Bologna, hanno lavorato alla scansione MicroCT e alla ricostruzione 3D del cranio fossile. “Abbiamo sfruttato tutta l’esperienza maturata in circa dieci anni di ricostruzioni digitali di ominini fossili per ottenere un modello 3D completo del cranio MRD”, ha spiegato Stefano Benazzi in un comunicato stampa ufficiale. Benazzi, direttore del Laboratorio di Osteoarcheologia e Paleoantropologia (BONES LAB) dell’Università di Bologna, ha proseguito: “È stato sorprendente, a seguito di un lavoro molto complicato in cui sono state utilizzate tecniche di modellazione 3D e metodi di morfometria geometrica, constatare di essere di fronte al primo cranio completo di Australopithecus anamensis, ovvero la specie più antica del genere Australopithecus“.
Ricostruzione: fotografie di Matt Crow, per gentile concessione del Cleveland Museum of Natural History. Ricostruzione facciale di John Gurche, resa possibile dal contributo di Susan and George Klein.
Australopithecus anamensis e Australopithecus afarensis sono coesistiti?
A prescindere dall’eccezionalità della completezza del reperto, proprio di un cranio, parte fondamentale per lo studio dell’evoluzione degli ominini, una delle caratteristiche che potrebbe trasformare questo fossile in una chiave fondamentale per interpretare la storia dei nostri antenati è la datazione e il confronto con ritrovamenti precedenti.
Facciamo un passo indietro. Fino a oggi la morfologia del cranio degli ominini del genere Australopithecus era poco chiara. I fossili più antichi, parliamo di Australopithecus anamensis datati tra 4,2 e 3,9 milioni di anni fa, erano stati identificati a partire da frammenti di mascella e denti mentre, per quanto riguarda le specie più recenti, esse erano rappresentate da più crani. Trovato MRD, gli scienziati lo hanno confrontato con un frammento di cranio risalente a 3,9 milioni di anni fa, scoperto sempre in Etiopia, nel 1981, e non attribuito con certezza a nessuna specie di ominine. L’analisi ha permesso di mostrare che le caratteristiche del frammento del 1981 non sono compatibili con quelle del cranio MRD, ma sono invece molto simili a quelle di campioni di cranio di Australopithecus afarensis. Lo studio ha, quindi, permesso di confermare che l’osso frontale del fossile non identificato apparteneva a un individuo della specie di Australopithecus afarensis, datando in questo modo la prima testimonianza fossile di Australopithecus afarensis a 3,9 milioni di anni fa. Considerando che il cranio fossile MRD risale a 3,8 milioni di anni fa, vi è una sovrapposizione di almeno 100.000 anni tra Australopithecus afarensis e Australopithecus anamensis.
Una rondine non fa primavera: questo è solo un primo indizio di una potenziale coesistenza tra specie
Gli autori dell’articolo pubblicato su Nature credono ancora che Australopithecus afarensis si sia evoluto da Australopithecus anamensis ma in una maniera un po’ particolare: forse un piccolo gruppo di A. anamensis si è diversificato geneticamente dalla popolazione presente e si è evoluto in A. afarensis, specie che in seguito ha prevalso. Si tratterebbe di una forma di speciazione locale, invece che di una graduale trasformazione dell’intera popolazione: un dettaglio che potrebbe essere cruciale nella comprensione dell’evoluzione degli australopitechi. Un unico fossile però non basta per riscrivere la storia degli antenati di Lucy. Sarà necessario raccogliere ulteriori prove in futuro, come ha affermato Tim White, paleoantropologo dell’Università della California, in una News del sito di Nature.
Yohannes Haile-Selassie, autore principale del lavoro, sembra possedere ulteriori indizi a conferma della potenziale coesistenza: nel 2012, lui e i suoi colleghi hanno descritto un’impronta fossile di ominine, osservata sempre nel sito di Woranso-Mille, con un alluce opponibile e risalente a 3,4 milioni di anni fa. Questa è una caratteristica non presente negli ominini di quell’epoca e quindi appartenente a una specie distinta con cui condivideva il territorio. Questo porterebbe a pensare che più specie di ominini siano coesistite tra 3 milioni e 4 milioni di anni fa. Un’ulteriore testimonianza che confermerebbe la teoria nata dalla scoperta e dagli esami effettuati sul cranio MRD.
Si parla ancora della storia dell’evoluzione dell’uomo nell’articolo di Alessandra Maria Adelaide Chiotto, “Quel po’ di Neanderthal (e Denisova) che c’è in noi”, pubblicato nel numero di agosto 2018 di Sapere.
Immagine di copertina: Cranio MRD. Fotografia di Dale Omori, per gentile concessione del Cleveland Museum of Natural History