Skip to main content

gennaio-febbraio 2018

Come possiamo ripulire gli oceani?

di Eleonora Polo, chimico, CNR-ISOF, UOS di Ferrara

Scarica Pdf
(1232 Download)
Letture
(6011 Volte)

Home Open Access Ambiente e Clima

Un mare di plastica inquina i nostri mari, e non possiamo continuare a tenere la testa sotto la sabbia. Per di più ci sono molti rifiuti pure lì. Esistono progetti validi di bonifica?

 

In un articolo pubblicato nel 2016 sulle pagine di questa rivista [1], ho cercato di fare il punto sull’origine e le proporzioni delle cosiddette isole di plastica.

La superficie stimata dei detriti galleggianti negli oceani copre quasi un terzo del pianeta e ormai non ci sono più zone di mare, per quanto remote, in cui non si trovino rifiuti di plastica [2]. Anche il nostro mar Mediterraneo non gode di buona salute e solo da pochi anni sono state avviate ricognizioni sullo stato dei laghi e dei fiumi.

Smog di plastica e satelliti ciechi

Le isole di plastica negli oceani, benché siano una specie di minestrone ben diverso da quello che il nome suggerisce, sono un problema reale molto serio e, parafrasando il Piccolo Principe, potremmo dire che l’essenziale è poco visibile agli occhi. Anche i satelliti, che pure sono capaci di individuare le fioriture del plancton, con dimensioni paragonabili a quelle delle microplastiche, non riescono a vederle e non sarà nemmeno facile istruirli a farlo.

 

 

1 copia

Concentrazione della plastica in superficie misurata dentro e fuori le isole di plastica
e nel mar Mediterraneo (fonte: A. Cózar et al.).

La campionatura degli oggetti di plastica raccolti nelle spedizioni compiute dal 2007 al 2013 in tutte e cinque le principali aree di accumulo e in vaste zone costiere e mari chiusi (compreso il mar Mediterraneo) ha portato a un risultato sconcertante che spiega perché sia così difficile vedere le isole di plastica da satellite [3]. Trasformando le tabelle numeriche in diagrammi a barre di più facile lettura, emerge subito un dato: sul numero stimato di 5250 miliardi di pezzi, il 92,4% è costituito da microplastiche con dimensioni inferiori a 4,75 mm (un chicco di riso), mentre solo lo 0,2% è grande almeno 20 cm. Tuttavia, sono proprio i pezzi più grandi che incidono di più sulla massa totale, perché costituiscono il 75,4% delle 268 940 tonnellate di plastica stimata. Quindi, ci sono tanti pezzi molto piccoli e leggerissimi distribuiti in una zona molto vasta e in una colonna d’acqua di 30 metri. Con una concentrazione di pochi kg per km2, rimuovere la plastica negli oceani equivale a togliere con un paio di pinzette pochi cucchiaini da tè di frammenti sparpagliati su una superficie pari a quella di un campo da calcio.
Questo dato deve essere tenuto presente da qualsiasi progetto di pulizia degli oceani, perché si tratta di dimensioni paragonabili a quelle di molte frazioni di plancton. Come togliere l’una (la plastica) senza distruggere l’altro (il plancton)?

 

 

2 copia

Distribuzione percentuale del numero dei frammenti di plastica raccolti (su 5250
miliardi) in relazione alle loro dimensioni (fonte: A. Cózar et al.).

3 copia

Distribuzione percentuale del peso (su 268 940 tonnellate) dei frammenti di plastica
raccolti in relazione alle loro dimensioni (fonte: A. Cózar et al.).

Chi sporca di più?

Nel 2015 la rivista Science [4] ha pubblicato un articolo che è diventato un punto di riferimento per tutti gli studi successivi. Tale articolo indica quali sono le nazioni che più di altre disperdono in mare plastica mal gestita − per dolo, incuria o inefficienza − in rapporto all’entità della popolazione costiera (considerando i 50 km dalla costa verso l’interno), cioè la plastica maggiormente responsabile dell’inquinamento marino diretto. Da questi dati risulta che l’83% di tutta la plastica che finisce negli oceani proviene dai venti Paesi in cima alla lista; basterebbe dunque dimezzare l’immissione di questi rifiuti per ottenere un calo del 40% della plastica in mare.

Ocean Cleanup Array, lo spazzino degli oceani
Presentato alla conferenza TEDx a Delft nel 2012 da Boyan Slat, uno studente olandese di sedici anni, Ocean Cleanup Array è il progetto che ha ricevuto maggiore risonanza mediatica e ha raccolto con una breve campagna di crowfunding tutti i finanziamenti necessari per lo studio di fattibilità e lo sviluppo dei primi prototipi.

 

4 copia

Il sistema Ocean Cleanup Array (© Erwin Zwart/The Ocean Cleanup).

Il progetto si propone di catturare e concentrare la plastica che galleggia nel Pacific Trash Vortex − l’isola di plastica nel Pacifico settentrionale − collocando in alcuni punti strategici una lunga barriera galleggiante a U, costituita da un sistema di grossi tubi rigidi galleggianti di polietilene, lunghi ognuno 1-1,2 km. Le boe non sono agganciate al fondale marino, ma sono tenute in posizione da un sistema di ancore sospese alla profondità di 600 m, dove le correnti oceaniche sono relativamente tranquille. Sotto ogni boa si stende una tenda zavorrata semirigida di poliuretano rinforzato in grado di trattenere oggetti di dimensioni superiori a 1 cm. L’ancoraggio mobile fa sì che il sistema di raccolta si muova con le onde, ma più lentamente della plastica, e così, sfruttando i movimenti delle correnti marine, il tubo crea un’insenatura artificiale che filtra e trattiene i rifiuti che galleggiano in superficie, convogliandoli verso una torre di raccolta in cui sono immagazzinati, dopo essere passati per una centrifuga che elimina l’acqua e tutto quello che non è plastica. Quando il serbatoio è pieno, viene inviata una nave che lo svuota e trasporta la plastica sulla terraferma perché sia riciclata e rivenduta per coprire i costi non trascurabili di trasporto e trasformazione.
Questo dovrebbe essere il design definitivo dopo il radicale restyling reso necessario dalle criticità emerse nel giugno 2016 con la messa in acqua, nel mare del Nord, di un primo prototipo di 100 metri, realizzato proprio per valutare la tenuta e la resistenza in mare aperto del sistema di boe. Alla fine del 2017 dovrebbe essere collocato vicino alla costa occidentale degli Stati Uniti il primo sistema pilota completo, a cui seguirà, nel 2018, l’Ocean Cleanup definitivo con l’obiettivo di coprire un’area di oltre 100 km2 entro il 2021. Secondo Boyan Slat e la sua squadra, in soli 5 anni sarà possibile estrarre e riciclare circa il 50% dei rifiuti del Pacific Trash Vortex.

È tutto oro quel che luccica?

Nel 2014, dopo la pubblicazione dello studio di fattibilità, vari esperti del settore hanno cominciato a “fare le pulci” ai dati riportati e hanno sollevato dubbi sul successo dell’operazione e sul suo impatto sul delicato ecosistema marino. Nessuno contesta il fatto che il progetto desideri sinceramente favorire la salvaguardia dell’ambiente, tuttavia tale analisi non è dettagliata e accurata in tutte le sue parti e sono emerse alcune criticità, enumerate di seguito:

1- Il progetto non affronta il problema all’origine

Il vero problema è il rilascio in mare dei rifiuti, per cui pulire il Pacific Trash Vortex sarebbe come “asciugare l’acqua dal pavimento senza chiudere il rubinetto della vasca”. Si corre inoltre il rischio di distogliere l’attenzione dal lavoro delle organizzazioni ambientalistiche, che si battono da anni per promuovere la prevenzione dell’inquinamento marino. È più efficace intercettare i rifiuti di plastica appena sono prodotti, prima che comincino a degradarsi e, soprattutto, prima che abbiano arrecato danni all’ambiente. È il risultato emerso anche dagli studi di un gruppo di ricercatori dell’Imperial College di Londra [5]. Applicando lo stesso modello di Slat, essi hanno dimostrato che, su una stessa scala temporale, sarebbe più efficiente − e più rispettoso delle specie marine − interporre dighe di cattura al largo dei Paesi che secondo lo studio di Science disperdono in mare le maggiori quantità di plastica.

2 – Le microplastiche non vengono raccolte

Il sistema di boe galleggianti catturerà solo oggetti di dimensioni superiori a 1 cm, quindi resteranno fuori le microplastiche, che costituiscono il 92,4% di tutti i detriti in mare. È vero che il maggiore contributo in massa è dato dagli oggetti più grandi, ma si tratta solo dello 0,2% del totale: una goccia in un mare. In più, c’è il ragionevole sospetto che una buona parte della plastica si sia depositata nel corso degli anni sui fondali marini, quindi sarà inaccessibile a un sistema di raccolta di superficie.

3 – Sono previsti danni collaterali alle specie marine

Le boe potrebbero trasformarsi in una gigantesca rete fantasma che cattura molte specie marine, perché, quando la struttura a U concentra rifiuti di plastica e plancton al centro, finirà per attirare prede e predatori, disturbandone il comportamento ordinario e gli schemi migratori. Considerate le grandi dimensioni del sistema, va valutato seriamente l’impatto su specie protette o importanti dal punto di vista alimentare. In teoria, gli animali dovrebbero tutti passare sotto la paratia, ma non si è tenuto conto degli organismi che si muovono per galleggiamento passivo e non si allontanano mai dalle acque superficiali ricche di ossigeno: non riusciranno mai a passare sotto e resteranno intrappolate. Infine, tutto il plancton che dovesse essere raccolto insieme alla plastica andrebbe separato per centrifugazione, un’operazione che produrrà danni irreparabili a strutture delicate ed essenziali come antenne, ciglia e apparati nutrizionali.

4 – Non si dà sufficiente importanza alle incrostazioni biologiche (biofouling)

Gli organismi marini colonizzano qualsiasi superficie costellandola di incrostazioni che potrebbero diventare un punto di ancoraggio per le reti fantasma (responsabili del 10% dei detriti in mare), trasformando così le boe in enormi reti di cattura. Inoltre, i depositi appesantiranno le barriere con il rischio di farle affondare. Slat afferma che esse saranno tempestivamente sostituite e che è stato previsto per il nuovo modello un rivestimento protettivo privo di biocidi, additivi chimici che evitano l’aggancio di batteri, alghe, piccoli molluschi e crostacei. Tuttavia, anche questo strato protettivo avrà una data di scadenza, dopodiché inizierà a staccarsi, rilasciando comunque sostanze chimiche estranee nell’oceano… e non dimentichiamo che si tratta di migliaia di chilometri di boe.

5 – Il sistema di boe resisterà alle tempeste dell’oceano?

Nelle immagini promozionali viene sempre presentato un oceano piatto come una tavola, una situazione alquanto improbabile visto che tutte le spedizioni nelle isole di plastica hanno dovuto affrontare difficili condizioni di navigazione e incidenti di ogni tipo. Infatti, dopo il primo test nel mare del Nord, è stato necessario ridisegnare l’intero sistema di boe, proprio perché già dopo alcune settimane si erano verificati danni importanti.

6 – Che fare della plastica raccolta?

Oltre all’inquinamento prodotto dal via vai delle navi di appoggio dalla terraferma alle piattaforme di raccolta, resta l’incognita della destinazione della plastica, perché si tratterà di un insieme eterogeneo di polimeri, maltrattati da agenti atmosferici e specie marine, carichi di sali, incrostazioni biologiche e inquinanti assorbiti nel corso del loro viaggio. Un mix plastico di qualità infima che non sarà certamente gradito a chi si occupa di riciclo. Portarlo in una discarica non farebbe che trasferire l’inquinamento da una parte all’altra del pianeta. Anche il recupero energetico in un termovalorizzatore sarebbe problematico a causa dei contaminanti che queste plastiche “invecchiate” hanno raccolto.
Allora, perché questo progetto piace così tanto? Perché non dobbiamo fare niente, ci pensano le boe. Esistono però altre possibilità.

I progetti del tipo “secchiello e paletta”

 

1) Il progetto Seabin
Si tratta di un’idea di due surfisti australiani, Andrew Turton e Pete Ceglinski, finanziata con il crowfunding e che ha prodotto il Seabin, una soluzione semplice ed economica per contrastare l’immissione dei rifiuti negli oceani.
Si tratta di una pattumiera galleggiante che raccoglie i detriti che affiorano a pelo d’acqua (plastica, vetro, carta e perfino olio), progettata per essere installata nelle zone di accumulo dei rifiuti di porti, calette turistiche, yacht club, moli e laghi. Non può lavorare in mare aperto, ma va collocata al riparo da tempeste e forti maree che la distruggerebbero. Il Seabin galleggia collegato al dock, una pompa sulla riva che opera a ciclo continuo mantenendo costante il flusso dell’acqua che circola al suo interno, attirando e catturando i rifiuti che galleggiano sulla superficie. L’immondizia è raccolta in un sacchetto di polietilene riciclato e separata dall’acqua, che viene aspirata attraverso il bidone e reimmessa nel porto turistico ripulita anche da oli, petroli e detergenti. L’unica manutenzione necessaria è la pulizia/ricambio del sacchetto interno, che ha una capacità di 12 kg e viene controllato due volte al giorno. È una soluzione semplice, dal design essenziale e dai costi di manutenzione contenuti, che sta cominciando a essere adottata nelle zone portuali di vari Paesi. Ogni Seabin cattura in media 1,5 kg di rifiuti al giorno che corrispondono a mezza tonnellata all’anno. L’energia necessaria a far funzionare la pompa è ottenuta da fonti rinnovabili (sole, vento, onde).
Gli ideatori del progetto, giustamente, insistono molto sul fatto che la vera soluzione al problema del mare sia l’educazione e sono attivi in varie iniziative di sensibilizzazione sulla prevenzione dell’inquinamento marino.

5 copia

Schema del sistema di raccolta Seabin.

2) Mr. Trash Wheel
Questa invenzione di John Kellett, proposta nel 2008, è una curiosa struttura che sembra un essere dalla grande bocca intento a divorare tutto ciò che gli passa davanti, installata a Baltimora nel punto in cui il fiume sfocia nella baia di Chesapeake. È una sorta di mulino dotato di pompe aspiranti che cattura i rifiuti che gli passano davanti e li raccoglie in un cassonetto tramite un nastro trasportatore. La macchina è alimentata dal movimento dell’acqua e dall’energia solare. Dal 2014 ha già ripulito il bacino della città di oltre 670 tonnellate di spazzatura.
Collocare i raccoglitori di rifiuti vicino alla foce dei fiumi è sicuramente un metodo efficace per impedire che grandi quantità di plastica finiscano in mare, con i benefìci aggiuntivi di ridurre i danni alla fauna marina e di poter recuperare plastica e altri materiali in uno stato ancora adatto al riciclo. Se si compisse la stessa operazione alla foce dei dieci grandi fiumi che più di altri inquinano i mari, la plastica negli oceani si ridurrebbe del 45% in pochi anni.

6 copia

Mr. Trash Wheel (© Matthew Bellemare – Wikimedia).

Prevenire è meglio che curare

La maggior parte di coloro che si occupano di inquinamento marino concorda nell’affermare che il primo provvedimento, alla portata di tutti, è interrompere questa folle spirale di produzione e spreco di plastica. Questo implica una revisione delle abitudini di consumo, perché si continuano a usare per azioni/applicazioni di soli pochi minuti proprio i materiali plastici che impiegano più tempo a degradarsi. I settori su cui vale la pena intervenire in modo prioritario sono l’imballaggio, l’usa e getta e l’eliminazione delle microplastiche aggiunte a molti prodotti di uso comune. Va anche potenziata ogni azione di riuso/riparazione, perché garantisce il massimo rendimento economico associato al minimo impatto ambientale.
Poiché tutto quello che finisce in mare viene per l’80% dalla terraferma, la prevenzione è alla portata di ogni cittadino, delle amministrazioni locali e dei governi. Non credo affatto che esista un’idea geniale capace di risolvere da sola il problema una volta per tutte: questa convinzione rischia di trasformarsi in un’enorme foglia di fico che nasconde il fatto imbarazzante che ognuno, senza eccezioni, si deve far carico del problema, adottando da subito abitudini e stili di vita più sobri, rispettosi per l’ambiente e sostenibili. Nel medio termine, infatti, sono i piccoli gesti che, moltiplicati per miliardi di persone, possono fare la differenza.

 

 

Sullo stesso tema, sarà pubblicato prossimamente L’isola che non c’è, prenotabile già all’indirizzo:
https://www.edizionidedalo.it/la-scienza-e-facile/l-isola-che-non-c-e.html

 

 

Riferimenti bibliografici
[1] E. Polo, “Le isole di plastica: alla scoperta del settimo continente”, Sapere, 2, 2016, pp. 10-15.
[2] A. Cózar et al., “Plastic Accumulation in the Mediterranean Sea”, PLoS ONE, 10, 4, 2015.
[3] M. Eriksen et al., “Plastic Pollution in the World’s Oceans: More than 5 Trillion Plastic Pieces Weighing over 250,000 Tons Afloat at Sea”, PLoS ONE, 9, 12, 2014.
[4] J.R. Jambeck et al., “Plastic waste inputs from land into the ocean”, Science, 347, 6223, 2015, pp. 768-771.
[5] P. Sherman, E. van Sebille, “Modeling marine surface microplastic transport to assess optimal removal locations”, Environmental Research Letters, 11, 1, 2016.

amministratore dedalo
DELLO STESSO AUTORE

© 2024 Edizioni Dedalo. Tutti i diritti riservati. P.IVA 02507120729