Su cosa si basa la radioterapia? E a che punto siamo con la ricerca e lo sviluppo dei nuovi acceleratori necessari per l’applicazione clinica dell’effetto FLASH scoperto di recente?
Con circa quattrocentomila casi ogni anno, le malattie oncologiche hanno un enorme impatto sociale ed economico in Italia; la loro diagnosi e le relative terapie costituiscono una sfida globale per la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica. La cura dei tumori negli anni si è specializzata, utilizzando princìpi e approcci diversi, e già oggi, in molti casi, raggiunge livelli di efficacia elevatissimi e di completa guarigione.
Cruciale per il successo di qualsiasi terapia è la diagnosi precoce, che permette di individuare il tumore nelle sue fasi iniziali, consentendo cure mirate. Non a caso, secondo uno studio dello University College of London, nel 2020, a causa della pandemia di Covid-19 si è registrato un aumento del 20% nella mortalità per cancro, dovuto principalmente a ritardi diagnostici o terapeutici. Per i principali tumori con elevata incidenza, in molte regioni italiane è attivo lo screening esteso alle fasce di popolazione esposte a maggiore rischio, con il duplice effetto di una diagnosi precoce e di una crescente sensibilizzazione sull’importanza della prevenzione.
I differenti approcci terapeutici consentono oggi di curare con efficacia oltre il 70% dei casi di tumore, mentre il 30% circa rimane difficilmente curabile. La radioterapia oncologica è utilizzata in un quarto dei casi complessivi e nel 40% dei casi curabili, e risulta curativa per i tumori radiosensibili quando il trattamento ha lo scopo di eliminare completamente il tumore. Viene anche impiegata nel trattamento preoperatorio per ridurre le dimensioni del tumore e consentire interventi chirurgici più radicali, o nella fase postoperatoria per ridurre eventuali residui tumorali. Purtroppo, invece, ha solo carattere sintomatologico o palliativo nei casi di tumori non trattabili, per alleviarne i sintomi.
La radioterapia è più semplice da somministrare della terapia chirurgica e virtualmente non richiede ospedalizzazione, sebbene siano necessarie delle terapie di supporto per il trattamento degli effetti collaterali legati alla piccola, ma non trascurabile, quantità di radiazione assorbita anche dai tessuti sani che circondano il tumore nella zona irradiata.
Radioterapia: cos’è e come si somministra
La radioterapia nasce agli inizi del XX secolo a partire dalla scoperta della radioattività da parte di Maria Salomea Skłodowska Curie, premio Nobel per la Fisica nel 1903 insieme al marito Pierre. La radioterapia si basa sull’effetto biologico delle radiazioni ionizzanti, che consente di aggredire e uccidere le cellule tumorali. I tipi di radiazione più comunemente utilizzati nella pratica clinica includono fotoni di alta energia (i raggi X o raggi γ) o particelle (gli elettroni e i nuclei di atomi leggeri, come i protoni, o i nuclei di atomi di carbonio). Ogni tipo di radiazione interagisce in modo differente con la materia, cedendo energia ai tessuti con un andamento caratteristico in funzione della profondità. La capacità di penetrazione della radiazione nei tessuti dipende infatti dal tipo di radiazione e dall’energia: a energie sufficientemente elevate consente di trattare tumori profondi.
Nella maggior parte dei casi la radioterapia utilizza raggi X o raggi γ di circa 8 MeV (1 MeV = 1 milione di elettronvolt, che rappresenta l’unità di misura di energia per i fenomeni su scala atomica e subatomica). Con queste energie, la dose assorbita dal tessuto è massima a una profondità di pochi centimetri per poi diminuire gradualmente. Nel trattamento di tumori profondi è necessario usare energie maggiori, quindi occorre tener conto sia della dose in ingresso sia della dose assorbita dai tessuti sani che circondano il tumore.
Le attuali tecnologie di irradiazione consentono di ridurre al minimo l’effetto sui tessuti sani attraverso un sofisticato controllo del volume di deposizione della radiazione, cioè dello spazio effettivamente irradiato durante la radioterapia. Questo controllo avviene predisponendo un piano di trattamento personalizzato, che si basa sulla conoscenza approfondita dell’area da trattare; viene costruito un modello numerico tridimensionale della zona a partire da esami diagnostici accurati, garantendo così che la dose assorbita dai tessuti sani sia tollerabile, mentre la dose somministrata al tessuto tumorale sia sufficientemente alta da garantire l’effetto terapeutico atteso. Per ottenere questo risultato si ricorre anche alla cosiddetta “irradiazione a molti campi”, nella quale il fascio di radiazione viene adattato alla forma del tumore e inviato da diverse direzioni che convergono tutte sull’area da trattare.
La “finestra terapeutica” guarda al bilancio fra gli effetti collaterali e l’efficacia del trattamento, massimizzando la probabilità di un effetto sul tumore in funzione della dose di radiazione assorbita. Al crescere della dose assorbita l’effetto sul tumore aumenta gradualmente fino a raggiungere un’efficacia terapeutica significativa, mentre il danno ai tessuti sani è ancora contenuto. Ne risulta una finestra che è tanto più ampia quanto più il tumore è radiosensibile e quanto minore è la suscettibilità dei tessuti sani alle radiazioni. Nei tumori radioresistenti, invece, la dose di radiazione richiesta per ottenere una risposta terapeutica nel tumore è eccessivamente alta e la finestra terapeutica si riduce fino a chiudersi, rendendo la radioterapia impraticabile.
L’effetto FLASH
Per oltre sessant’anni di pratica radioterapica, la definizione dei piani di trattamento dei soggetti oncologici si è ispirata al principio guida della somministrazione graduale della dose terapeutica, attraverso più sessioni distanziate nel tempo. Questo principio è tuttora considerato un elemento chiave nel controllo del rapporto costi-benefìci.
Studi recenti mostrano che questo principio guida potrebbe però non essere ottimale. Il cosiddetto “effetto FLASH”, già oggetto di alcuni studi degli anni ’60 e negli ultimi tempi tornato alla ribalta [1], suggerisce infatti che la somministrazione della dose terapeutica in un’unica sessione e in tempi molto brevi (frazioni di secondo) porterebbe a equivalenti effetti sul tumore, ma a un minor danno ai tessuti sani, consentendo di allargare la finestra terapeutica. Si tratta di un potenziale cambiamento di paradigma che potrebbe portare a una rivoluzione della radioterapia, con grandi vantaggi clinici, economici e sociali.
Lo studio preclinico su modello animale si basa sul confronto tra l’esposizione FLASH a una singola dose somministrata a un rateo superiore a 40 Gy per secondo (il Gray, indicato con Gy ed equivalente a 1 J/kg, è l’unità di misura della dose per le radiazioni ionizzanti) – erogando elettroni di energia pari a 4,5 MeV con un acceleratore di particelle da laboratorio – e l’irradiazione convenzionale con raggi γ, provenienti dall’isotopo 137 del cesio a dosi convenzionali inferiori o pari a 0,03 Gy/s.
I risultati mostrano che eventi collaterali avversi di polmonite e fibrosi si riscontrano nel 100% dei casi trattati con 17 Gy a dosi convenzionali. Al contrario, i casi trattati con dosi simili in regime FLASH mostrano una completa assenza di tossicità polmonare. Sorprendentemente, l’irradiazione FLASH si è rivelata efficace quanto quella convenzionale nel reprimere la crescita del tumore, portando così a un effettivo ampliamento della finestra terapeutica utile. In seguito, l’effetto differenziale tra tumore e tessuti normali dopo l’irradiazione FLASH è stato confermato in altri esperimenti preclinici e in un primo straordinario trattamento clinico su paziente [2].
L’effetto FLASH nel caso dei tumori radiosensibili sposta il danno ai tessuti sani verso dosi più elevate, producendo minori effetti collaterali a parità di dose rispetto al trattamento convenzionale. Nel caso dei tumori radioresistenti, inoltre, l’effetto FLASH consentirebbe di irradiare il tumore a dosi più elevate pur mantenendo tollerabili gli effetti collaterali.
Nonostante gli incoraggianti risultati preclinici, i meccanismi biologici alla base dell’effetto FLASH osservato nei tessuti sani rimangono elusivi e richiedono ulteriore sperimentazione. In effetti, la dinamica temporale del danno biologico da radiazione è estremamente complessa e dipende da meccanismi fisici e chimico-fisici, quali l’eccitazione degli elettroni e la ionizzazione degli atomi, la dissociazione molecolare e la produzione di radicali liberi.
Studi precedenti avevano già ipotizzato che la maggiore resistenza dei tessuti normali all’irradiazione FLASH sarebbe una conseguenza della diminuita produzione di radicali liberi provenienti dalla radiolisi dell’acqua. Questi radicali si formano per contatto fra l’acqua che ha subìto la radiolisi e l’ossigeno presente nei tessuti. L’ossigeno però si esaurirebbe rapidamente a seguito dell’esposizione dei tessuti a dosi elevate in tempi rapidi e non sarebbe più disponibile per la produzione di radicali liberi, dunque non creerebbe danni al DNA.
L’erogazione della dose in un tempo molto breve potrebbe quindi determinare una condizione di carenza di ossigeno, o ipossia, all’interno dei tessuti irradiati e di conseguenza un aumento della radioresistenza del tessuto sano, con un minimo impatto sul tessuto tumorale già normalmente ipossico. Per quanto questa ipotesi sia interessante, essa comunque non chiarisce come la radioterapia FLASH sia in grado di dare una risposta antitumorale analoga a quella del trattamento convenzionale; è evidente la necessità di ulteriori approfondimenti [3].
Verso la radioterapia FLASH
L’effetto FLASH potrebbe tradursi in un importante passo avanti nella radioterapia oncologica. Ciò richiederà nuovi protocolli terapeutici che potranno essere definiti una volta chiariti i meccanismi biologici alla base. Sono quindi necessari esperimenti progettati con cura e basati su acceleratori in grado di erogare dosi controllate a tassi variabili – dai valori convenzionali oggi in uso sino a valori ultra-alti – per studiare i processi fisici e chimici che avvengono nei sistemi biologici a diverse scale temporali (fino al miliardesimo di secondo).
La disponibilità di sorgenti di radiazione idonee alla sperimentazione FLASH è stata finora limitata ad acceleratori di elettroni da laboratorio, opportunamente modificati per ottenere flussi elevati a bassa energia, in genere inferiore a 10 MeV, utilizzabili per la sperimentazione in vitro e per una limitata classe di test in vivo. I primi studi preclinici sono stati compiuti anche con fasci di protoni disponibili presso i centri di terapia adronica.
Più in generale, l’applicazione clinica della radioterapia FLASH richiederà un’ampia disponibilità di fasci di radiazione di alta energia e alta capacità di penetrazione. I raggi γ, gli adroni e gli elettroni sono tutti potenzialmente in grado di penetrare in profondità, a condizione che l’energia sia abbastanza elevata. Tuttavia, nel caso dei raggi γ, si tratta di radiazione “secondaria” ottenuta per bremsstrahlung (frenamento) di fasci di elettroni, un processo fisico piuttosto inefficiente e poco indicato a produrre fasci di alta intensità.
Anche per questo motivo, in vista di future applicazioni, l’attenzione si sta concentrando sui protoni e sugli elettroni di alta energia – noti come VHEE (Very High Energy Electrons) – con energie tra i 100 e i 250 MeV. In entrambi i casi, le tecnologie oggi utilizzate impongono forti limitazioni allo sviluppo di una nuova generazione di acceleratori FLASH compatti. Il gradiente accelerante degli attuali acceleratori ospedalieri a radiofrequenza è di pochi MeV/metro, per cui sarebbero necessari acceleratori di qualche decina di metri di lunghezza e costi elevati per ottenere fasci di elettroni con le energie richieste. Per ragioni simili, la generazione di fasci adronici di alta energia richiede impianti di dimensioni elevate, che ne impediscono la diffusione a livello ospedaliero.
D’altra parte, anche grazie agli investimenti nello sviluppo dei grandi acceleratori e dei laser di alta intensità, la ricerca è già in grado di proporre soluzioni per acceleratori più compatti e potenzialmente in grado di raggiungere le specifiche richieste dalla radioterapia FLASH a dimensioni e costi molto più contenuti. Gli studi sugli acceleratori a radiofrequenza effettuati presso i principali laboratori come il CERN di Ginevra, il FERMILAB di Chicago o i Laboratori INFN in Italia, ad esempio, hanno consentito di realizzare nuove tecnologie in grado di raggiungere campi acceleranti a radiofrequenza più elevata, sufficienti a generare fasci VHEE con sistemi relativamente compatti.
Una soluzione sempre più studiata si basa sugli acceleratori laser-plasma che utilizzano impulsi di luce laser intensi [4] e ultracorti per generare campi acceleranti all’interno di un plasma (un gas altamente ionizzato). Questi acceleratori sono allo studio in numerosi laboratori nel mondo, come il Lawrence Berkeley National Laboratory in California o quello del CNR di Pisa, anche nel quadro di grandi progetti europei come l’infrastruttura ELI (Extreme Light Infrastructure) e il progetto EuPRAXIA finalizzato allo sviluppo industriale degli acceleratori al plasma.
Queste nuove tecnologie laser permettono già ora di produrre fasci di elettroni VHEE [5] di dimensioni estremamente compatte, in uso per la sperimentazione preclinica in laboratorio [6]. In futuro consentiranno di realizzare acceleratori per uso medico di nuova generazione, riducendo le esigenze di spazio, anche in vista delle complesse geometrie di irradiazione necessarie per la moderna radioterapia.
L’impegno nella ricerca per la radioterapia FLASH vede fortemente coinvolta l’industria, con i grandi produttori di macchine ospedaliere per la radioterapia in pole position nel proporre soluzioni tecnologiche basate su miglioramenti delle macchine già esistenti o nel collaborare allo sviluppo di nuovi strumenti. Quest’aspetto, da solo, spiega la portata dell’effetto FLASH che, una volta compreso e definitivamente confermato da studi clinici, richiederà tecnologie innovative e importanti investimenti industriali.
La terapia dei tumori è un obiettivo chiave per il benessere delle attuali e future generazioni e una sfida cruciale per la ricerca multidisciplinare. Le novità all’orizzonte non mancano e, con i necessari finanziamenti, le attuali ricerche di laboratorio potranno tradursi in innovazione, trasferimento tecnologico alle imprese e un nuovo approccio alla cura dei tumori.
Riferimenti bibliografici
[1] V. Favaudon et al., “Ultrahigh dose-rate FLASH irradiation increases the differential response between normal and tumor tissue in mice”, Science Translational Medicine, 6, 245, 2014.
[2] J. Bourhis et al., “Treatment of a first patient with FLASH-radiotherapy”, Radiotherapy and Oncology, 139, 2019, pp. 18-22.
[3] M. Durante et al., “Faster and safer? FLASH ultra-high dose rate in radiotherapy”, British Journal of Radiology, 91, 2018.
[4] L.A. Gizzi, “Laser estremi e plasmi: un futuro brillante”, Sapere, 5, 2018, pp. 10-15.
[5] L. Labate et al., “Toward an effective use of laser-driven very high energy electrons for radiotherapy”, Scientific Reports, 10, 2020.
[6] L.A. Gizzi et al. (a cura di), Laser-Driven Sources of High Energy Particles and Radiation, Springer, Cham 2019.
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