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03 Dic 2019

Il declino della pesca

Ilaria Perissi

Ilaria Perissi
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«Dai un pesce a un uomo e mangerà per un giorno, insegnagli a pescare e svuoterà l’oceano». Questo detto vi suona forse familiare, ma la conclusione, in realtà, era qualcosa tipo «insegnagli a pescare e potrà mangiare per tutta la vita».

«Dai un pesce a un uomo e mangerà per un giorno, insegnagli a pescare e svuoterà l’oceano». Questo detto vi suona forse familiare, ma la conclusione, in realtà, era qualcosa tipo «insegnagli a pescare e potrà mangiare per tutta la vita».

Vi chiederete dunque come mai questa saggia affermazione, che sprona l’individuo a essere vispo e lungimirante, è stata da me trasformata e usata per qualificare un uomo tutt’altro che saggio, che si procaccia ben oltre quanto necessario per la propria sussistenza, lasciando dietro di sé un oceano vuoto. La risposta è che la nuova versione descrive perfettamente il fenomeno dell’overfishing (pesca oltre il limite), termine che qualifica la pesca moderna come un processo non più sostenibile né per le specie ittiche, né per l’economia; per capirlo basta fare una piccola indagine.

 

Il primo caso di overfishing ben documentato risale all’Ottocento, quando negli Stati Uniti la pesca del capodoglio crollò nell’arco di pochi anni dopo quasi un secolo di attività. Il capodoglio è una balena pregiata, che forniva alla società dell’epoca numerosi beni primari, come l’olio per l’illuminazione, che l’animale conserva nella parte frontale del cranio; inoltre, la carne e perfino le ossa si trasformavano in vari tipi di utensili.

Alla fine degli anni ’50 dello scorso secolo, fu il turno delle sardine californiane: erano così perfette in lattina che alla fine poche ne rimasero in mare. Cito inoltre il caso dell’acciuga peruviana (anni ’80), del merluzzo canadese (1992) e il recente declino dell’intero settore di pesca giapponese: anche dopo molto tempo, i valori di pescato in queste zone non sono mai più tornati alti come prima. Cosa c’è di comune in questi episodi?

Grazie al lavoro svolto durante il mio post doc presso il Dipartimento di Chimica dell’Università degli Studi di Firenze, quando ho cominciato a sviluppare modelli matematici inerenti alle dinamiche di sostenibilità ambientale, ho potuto notare che il pescato, confrontando i vari dati storici, aveva, in tutti i suddetti casi, un andamento a campana. Questo andamento somiglia tanto a quello descritto da un famoso modello di dinamica degli ecosistemi, il modello preda-predatore. Il modello descrive la dinamica di due popolazioni, di cui una è nutrimento dell’altra: quando c’è abbondanza di prede, i predatori aumentano, per poi diminuire quando le prede scarseggiano, condizione che lascia le prede più libere di riprodursi e di tornare in abbondanza chiudendo il ciclo.

Il problema, oggi, è che quando il pesce va in deficit l’industria peschiera invece di rallentare, incentiva il ritmo per continuare a sostenere le richieste di mercato, estraendo il pescato a una velocità maggiore di quella alla quale può riprodursi, creando una condizione di sovrasfruttamento. Si provocano così danni irrecuperabili, come nel caso della balena franca, in via di estinzione, o recuperabili solo parzialmente e con tempi molto lunghi. Impariamo quindi dalla dinamica preda-predatore a rispettare i ritmi di riproduzione delle specie, evitando in questo modo che l’ambiente e l’attività del settore pesca ne risentano irrimediabilmente.

 

Ilaria Perissi
Ilaria Perissi
Chimico Fisico di formazione e PhD in Scienza dei Materiali, Ilaria Perissi è impegnata nella ricerca sulla mitigazione del cambiamento climatico presso l’Università di Firenze. È membro del Consiglio della Federazione Europea “Transport&Environment” ed è autrice di vari articoli sull’uso di modelli di Dinamica dei Sistemi nello studio dello sfruttamento delle risorse.
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