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03 Mar 2018

Dal chinino all’Oscillococcinum: la storia dell’omeopatia

Francesco Milano

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Prendete del fegato d’anatra muschiata. Fatto? Bene, ora trituratelo e mettetene un grammo in una bottiglia da 100 mL, riempitela d’acqua distillata e agitate molto forte. Più forte. Un po’ di più… Ok, può bastare. Svuotate il tutto, lasciando nel recipiente le goccioline che normalmente restano adese alle pareti. Riempite di nuovo con 100 mL di acqua distillata e ripetete tutto il procedimento. Ripetetelo per altre 200 volte. Alla fine, mettete l’acqua in un nebulizzatore e spruzzatene un po’ su una pallina di zucchero grande come una Zigulì. Il risultato? Avete preparato una pillola di Oscillococcinum alla “potenza” 200K, dove K indica il fattore di diluizione korsakoviano, che corrisponde circa a 100, e 200 è il numero di ripetizioni di tale diluizione.

 

L’Oscillococcinum è il farmaco omeopatico antinfluenzale più venduto al mondo. Ogni pallina viene venduta a un euro. La forte agitazione, o “succussione”, che avete fatto a ogni diluizione, si chiama in gergo “dinamizzazione” e serve a far assumere all’acqua una configurazione particolare, dovuta alla presenza del principio attivo che ne imprime la “memoria”. Questa è fondamentale perché è l’unica cosa che rimane dopo la serie di diluizioni. Del principio attivo non è rimasto nulla. Ma qual è questo principio attivo? Si tratta di un batterio inesistente, l’Oscillococco, che il fantomatico scopritore, il fisiologo Joseph Roy (1891–1978), credette di vedere nel sangue dei malati di influenza spagnola (1917-1919) e al quale attribuì l’insorgenza della malattia. E invece erano semplici bollicine d’aria. Che poi l’influenza sia causata da virus e non da batteri è un’altra storia, che però fu chiarita solo qualche decennio più tardi. Ma il caso volle che il nostro fisiologo individuasse proprio nel fegato d’oca un’alta concentrazione di bollicin… pardon, Oscillococchi! Ed è per questo che una nota ditta, ancora oggi, produce l’Oscillococcinum, immolando una volta all’anno UN fegato d’oca. Avete letto bene, uno. Perché uno solo basta per produrre tutte le palline che vengono commercializzate.

 

Ma facciamo un passo indietro. Perché mai si usa questa bizzarra procedura di produzione? Perché una persona, per curare l’influenza, uno dovrebbe ingoiare una pallina contenente la “memoria” dell’agente che l’avrebbe scatenata? La pratica nacque nei primi anni dell’Ottocento da un’idea del medico tedesco Samuel Hahnemann (1755-1843). Egli fece un curioso esperimento su se stesso: assunse diverse dosi di chinino, usato a quel tempo per curare la malaria, e credette di aver sviluppato i sintomi della malattia. Così egli formulò l’ipotesi che la guarigione da una malattia potesse essere favorita da una sostanza che induce i sintomi di quella patologia in una persona sana. Da qui il nome “omeopatia”, (curare con il simile) in opposizione ad “allopatia” (curare con gli opposti), termine coniato dallo stesso Hahnemann, ma non in uso negli ambienti della medicina ufficiale. L’esperimento del chinino non poté essere replicato su altri individui ma oramai Hahnemann si era convinto della veridicità della sua ipotesi e nel 1806 enunciò i principi fondanti dell’omeopatia:

  1. il “principio dei simili”, ossia le malattie si curano con le stesse sostanze in grado di scatenare una sintomatologia simile in un soggetto sano;
  2. il farmaco omeopatico idoneo a una patologia va identificato valutando gli effetti della sostanza pura, assunta singolarmente da un individuo sano;
  3. le succussioni danno ai medicamenti un’energia che viene moltiplicata dalla diluizione.

Lasciamo il lettore riflettere sul fatto che l’acqua usata per eseguire le diluizioni è venuta a sua volta a contatto con chissà quante sostanze e che, a rigor di logica, dovrebbe conservare la memoria di ognuna. Prendiamo atto del fatto che l’acqua debba subire dunque un processo di “smemorizzazione” prima di essere usata.

 

La teoria trovò largo consenso nel XIX secolo, tanto che sorsero numerosi ospedali omeopatici dove si somministravano ai pazienti farmaci con ottima memoria. Clamoroso fu il caso delle elevate percentuali di guarigione (84%) dal colera durante l’epidemia del 1854 a Londra, contro il 46% degli ospedali tradizionali, dove i pazienti venivano curati con pratiche più tradizionali, come ad esempio il salasso, molto in voga all’epoca. Hahnemann notò che i primi sintomi del colera erano simili a quelli di abuso di canfora, prescrivendo quindi un trattamento a base di canfora diluita 1:12 in alcol1 (non una diluizione propriamente omeopatica quindi). Casualità volle che la canfora fosse un buon disinfettante, che a quei tempi non era stato ancora introdotto di routine nella pratica medica.

 

Naturalmente, col progredire della ricerca medica e il migliorare delle terapie ufficiali, gli ospedali omeopatici iniziarono a perdere di popolarità e a chiudere l’uno dopo l’altro. Al giorno d’oggi, ça va sans dire, nessun test clinico ha potuto dimostrare un’efficacia terapeutica che sia superiore all’effetto placebo di qualsivoglia preparato omeopatico. Inoltre l’Organizzazione Mondiale della Sanità sancisce ufficialmente l’inefficacia dell’omeopatia. Del resto l’entità della costante di Avogadro (N0 = 6.022*1023 molecole/mole), dovrebbe convincere chiunque che i preparati omeopatici più diffusi contengono solo… gli eccipienti. Consideriamo, infatti, un preparato alla potenza 12K (molto comunemente usata), che equivale ad una diluizione di 1024 volte. Orbene, dal momento che una mole di sostanza (che pesa ben più di un grammo) contiene appunto 6.022*1023 molecole, il preparato 12K conterrà 0,6022 molecole. E siccome ogni molecola è indivisibile, significa che il principio attivo è assente a tutti gli effetti.

 

Ci sarebbe piaciuto poter affermare che Avogadro e la teoria atomica avessero decretato la fine dell’omeopatia. Purtroppo, dopo il suo quasi totale abbandono già alla fine dell’800, l’omeopatia, che sempre più spesso viene confusa con la fitoterapia (in cui ci si cura con estratti di erbe ma a concentrazioni “normali”) ha avuto un revival alla fine del ‘900, con un picco intorno al 2000 in paesi come l’Italia, la Francia e l’Inghilterra. Ci consola almeno il fatto che la percentuale di utilizzatori sia in continuo calo. D’altro canto, se ci credi davvero, l’effetto placebo è pur sempre efficace: prendendo l’Oscillococcinum, l’influenza guarisce in una sola settimana, anziché in sette giorni.

 

1 Fonte: L’anti-cholera, o sia soluzione de’ problemi più importanti relative al colera Asiatico, dedotta dalle osservazioni su di esso fatte in tutte le parti del globo, Editore Dalla stamperio e cartiera del Fibreno, 1832

Francesco Milano
Francesco Milano
Francesco Milano è ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche presso la sede di Bari dell’Istituto per i Processi Chimico-Fisici. Laureato in Chimica nel 1997, è da anni impegnato nello studio della fotosintesi, nella cattura dell’energia associata alla luce solare e sua trasformazione in energia chimica.
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