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28 Mag 2024

Il Marrone Mummia è esattamente quello che pensi che sia

Giorgio Rizzo

Giorgio Rizzo
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«Che brutta cera, sembri una mummia!»: è un’affermazione che ci viene rivolta quando il nostro aspetto non è certamente dei più freschi. Benché il processo di mummificazione rimanga ancora oggi non completamente chiarito e pregno di fascino, bisogna ammettere che le mummie non spicchino per la loro avvenenza. Cionondimeno, ricoprivano un ruolo fondamentale nell’antica cultura egizia, sebbene siano state rinvenute anche in altre parti del mondo, come quelle dei monaci buddhisti sulle pendici Tibetane o di alcuni imperatori cinesi. È interessante notare come, durante il Medioevo e persino in tempi attuali, la mummificazione continui ad essere un processo praticato, soprattutto da tribù indigene del centro e sud America e delle regioni polinesiane.

 

L’origine del termine “mummia”

Il termine “mummia” deriva dall’antico persiano mum o mumiyya e letteralmente indica un materiale di rivestimento ceroso, idrofobico e bituminoso, corrispondente all’essudato viscoso e nerastro che si forma naturalmente a seguito della lenta disidratazione e mummificazione del cadavere, responsabile del tipico colore marrone bruciato delle mummie. Tralasciando il nobile, e austero, scopo di preservare una figura importante quale un faraone, un imperatore o un Lama buddhista, le mummie rimasero pressoché inutili per altri impieghi. Sarà nel XII secolo che, in Europa, inizierà a diffondersi la presunta convinzione che il bitume delle mummie egizie possedesse effetti medicinali, idea nata dalla similitudine di questo materiale con il naturale bitume, sostanza già nota agli antichi Greci per curare diversi problemi di salute. Gli europei erano infatti convinti che le bende di lino utilizzate per avvolgere i cadaveri fossero prima trattate con la pece, e che le mummie, quindi, avessero assorbito questa sostanza.

Non ci volle molto affinché gli europei, all’inizio del XVI secolo, iniziassero letteralmente a depredare le antiche tombe egizie, stabilendo rotte commerciali con Il Cairo e Alessandria, complici anche i locali che, per pochi spicci, appoggiarono ben volentieri la vendita di intere mummie o frammenti di esse. Ben presto, tuttavia, le risorse iniziarono a scarseggiare e, per mantenere gli affari, molti profanatori di tombe presero a mummificare i cadaveri di contemporanei, quali criminali o schiavi, accelerando il processo per diretta immersione in pece bollente ed esponendo il corpo al cocente sole d’Egitto. In altri casi, frammenti di mummie umane si rivelarono essere invece ibis o cammelli. Una volta ottenuto un campione di mummia, questa veniva “sfasciata” e il cadavere macinato in polvere, in seguito mescolata ad altre sostanze, da applicare come unguento sulla pelle o da disperdere in acqua per farne un drink…energizzante. Molti personaggi illustri dell’epoca, tra cui medici affermati e scienziati, declamavano le presunte proprietà curative della polvere di mummia, paragonandola a una vera panacea contro ogni male. Più da vicino, persino Caterina de’ Medici si procurò nel 1549 diversi campioni di mummie dall’Egitto.

 

Le mummie e il loro impiego terapeutico

Il controverso medico Paracelso fu uno dei principali promotori dell’impiego terapeutico delle mummie, in quanto credeva che l’ingestione di carne di un certo organismo ne trasmettesse anche le qualità migliori dello stesso. Essendo la mummificazione riservata soltanto alle figure massime, ne deriva l’interesse nell’impiego di questa inusuale medicina. Più avanti, nacquero addirittura dei veri e propri libri di ricette per mummie, indicando quelle derivate da uomini giovani morti non per malattie, o quelle da giovani donne vergini, come le migliori “carni” da impiegare.

Per quanto fosse discutibile l’uso alimentare o terapeutico delle mummie, è stato dimostrato che non vi è nessun beneficio nel loro utilizzo per tali scopi, e che addirittura possano avere avuto un ruolo determinante nella trasmissione di epidemie di peste in Europa.

 

Marrone Mummia: un pigmento particolare

Scandagliati gli impieghi salutistici delle mummie, ci si accorse che il colore delle polveri non era facilmente ottenibile con i pigmenti noti all’epoca, e che forse ci si poteva ricavare anche una pittura. Nel 1712 venne commercializzato un pigmento, mescolando polvere di mummia con mirra e pece bianca, col nome di Marrone Mummia, Caput Mortuum o, più genericamente, Marrone d’Egitto. Si hanno notizie che fino al 1964 era possibile acquistare il pigmento dalla famosa azienda Roberson & Co. a Londra per soltanto tre sterline e che, da un solo esemplare intero di mummia, era possibile provvedere alla richiesta di pigmento per almeno un anno.

 

L’uso del Marrone Mummia nell’arte

Questo pigmento divenne particolarmente usato intorno al 1850, quando l’arte pittorica iniziò a ritrarre situazioni realistiche di vita comune, di realtà povere o scenari di guerra, in cui molte tonalità scure di marrone erano particolarmente apprezzate. Uno dei quadri iconici realizzati in Marrone Mummia è La Libertà che guida il popolo di Eugène Delacroix, ma il suo impiego nell’arte terminò ben presto. Infatti, la difficoltà nel reperire la fonte principale crebbe in quanto le mummie iniziarono ad essere preservate in musei come reperti archeologici di interesse storico e scientifico, e inoltre per la scarsa resa pittorica, dal momento che il pigmento non si legava bene alla tela, asciugava troppo in fretta, si crepava una volta secco, e le tinte di marrone cambiavano ad ogni nuovo flacone di pittura, rendendo difficile replicare le sfumature del colore.

La prima analisi chimica del pigmento risale al 1914, rivelando che il marrone era generato dall’imbrunimento di gomma naturale e resina vegetale impiegata nel processo di mummificazione, insieme ad altre sostanze quali proteine, lipidi e zuccheri imbruniti dal tempo e dal calore delle sabbie d’Egitto.

Giorgio Rizzo
Giorgio Rizzo
Giorgio, laureatosi in Chimica con specializzazione magistrale in Chimica dei Sistemi Molecolari, oggi frequenta la scuola di Dottorato in Scienze Chimiche e Molecolari presso l’Università di Bari.
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