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11 Apr 2016

Decommissioning nucleare: costi o opportunità?

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Malgrado il progressivo e marcato rallentamento dell’industria nucleare nei paesi occidentali, i reattori nel mondo che sfruttano il fuoco della fissione ammontano oggi alla cifra considerevole di 438 unità (principalmente del tipo PWR, seguiti dai modelli BWR e PHWR). Questi sono localizzati negli Stati Uniti, Europa e Asia, mentre le centrali nucleari in costruzione sono 71, distribuite principalmente tra Cina, Russia, India e Repubblica di Corea.

Malgrado il progressivo e marcato rallentamento dell’industria nucleare nei paesi occidentali, i reattori nel mondo che sfruttano il fuoco della fissione ammontano oggi alla cifra considerevole di 438 unità (principalmente del tipo PWR, seguiti dai modelli BWR e PHWR). Questi sono localizzati negli Stati Uniti, Europa e Asia, mentre le centrali nucleari in costruzione sono 71, distribuite principalmente tra Cina, Russia, India e Repubblica di Corea.

L’eredità nucleare di inizio millennio è quindi di quelle che non passano inosservate e con la quale, sia noi che le generazioni future, dovremo prima o poi fare i conti. Si pensi infatti che la maggior parte dei reattori in funzione oggi ha una vita media variabile dai 30 ai 40 anni e che l’IAEA (International Atomic Energy Agency) stima che quasi 200 dei reattori in funzione verranno spenti da qui al 2040, mentre gli impianti attualmente già fermi in modo definitivo sono addirittura 149, principalmente negli Stati Uniti, Regno Unito, Germania e Francia. Numeri importanti che fanno riflettere sulla portata del problema.

 

Il decommissioning

Un termine divenuto negli ultimi decenni di uso comune è quello di decommissioning nucleare, ossia quell’attività connessa allo smantellamento di tutti i componenti di un impianto nucleare, dal nocciolo del reattore, al generatore di vapore, fino alla decontaminazone e demolizione degli stessi, per giungere infine a una corretta gestione dei rifiuti radioattivi risultanti, portando il sito alle condizioni di prato verde.

Il decommissioning nucleare presenta numerose barriere per la sua corretta implementazione che vanno dai costi ingenti distribuiti su un arco temporale di decenni – complicando quindi notevolmente le procedure di project financing -, ai rischi politici, alla difficile identificazione dei precisi ruoli da suddividere tra governi, organismi regolatori e implementatori. In questo contesto le esperienze dell’IAEA per il decommissioning di impianti a seguito di incidenti nucleari (quali per esempio FukushimaThree Mile Island, Chernobyl, solo per citare i più famosi) risultano un riferimento importante per gli specialisti del settore.

Secondo gli esperti il costo del decommissioning delle centrali nucleari nel mondo ammonterà nei prossimi anni a oltre 100 miliardi di euro solo per le centrali nucleari, tralasciando il costo del trattamento dei rifiuti. Per citare un esempio l’EDF, azienda che gestisce centrali nucleari in Francia, il paese con il maggior numero di reattori attivi, ha inserito nei propri bilanci specifiche voci per il finanziamento del decommissioning dei propri impianti (circa11 miliardi di Euro solo per i suoi 58 PWR).

 

Il contesto italiano

In questo contesto internazionale, anche il caso dell’Italia risulta più attuale che mai, malgrado abbia spento le proprie centrali da tempo. A oggi infatti sono numerose le installazioni nucleari da gestire nel nostro paese: gli impianti di Trino (reattore PWR da 270 MWe), Caorso (reattore BWR da 860 MWe), Latina (reattore Gas-Grafite da 210 MWe) e Garigliano (reattore BWR da 160 MWe), oltre ai siti della Casaccia, Bosco Marengo, Rotondella, Saluggia e Ispra, seguite da tre reattori di ricerca Enea, tre reattori universitari e un reattore di ricerca militare. Vantaggio non trascurabile dell’Italia, a livello di know-how tecnologico, è quello di essere stata tra i primi paesi occidentali a uscire dal settore nucleare e di poter operare sull’intera filiera, dalle centrali agli impianti necessari per il ciclo del combustibile, dovendo poi acquisire competenze per lo smantellamento di tre delle principali tipologie di reattori esistenti al mondo (per l’appunto i reattori PWR, BWR e gas-grafite).

 

Il Deposito Nazionale

La strategia per la disattivazione delle nostre installazioni nucleari è basata sulla gestione dei rifiuti e del combustibile radioattivo e lo smantellamento delle strutture, fino al trasferimento del tutto in un futuro Deposito Nazionale. A Sogin, società pubblica specializzata, è stato affidato il compito di localizzare, realizzare e gestire tale sito. Qui le scorie nucleari saranno accumulate in strutture stabili che prevedono quattro barriere, destinate a resistere circa 350 anni in sicurezza e totale isolamento. Il sito sarà poi costantemente monitorato per eventuali contaminazioni radioattive nell’ambiente. I livelli di sicurezza dovranno essere massimi e l’approccio per una buona radioprotezione della popolazione dovrà rispettare i criteri della non rilevanza radiologica.

Il volume dei rifiuti radioattivi da trattare oggi in Italia è pari a 30.000 metri cubi, di cui il 29% derivanti dalle centrali nucleari, 22% dal ciclo del combustibile, 35% dal settore ricerca e il 14% dal settore medicale e industriale, con una proiezione su un arco temporale di 40 anni di 75.000 metri cubi (di cui 15.000 metri cubi circa ad alta attività). Solo per dare una dimensione economica al problema italiano, il costo complessivo del decommissioning dei nostri impianti nucleari è pari a 6,5 miliardi di euro (di cui 2,6 miliardi già sostenuti), con una previsione di definizione lavori entro il 2035.

La geopolitica del decommissioning nucleare è quindi evidente: il nucleare è ancora presente in molti paesi del mondo e perfino in quelli, come l’Italia, dove lo stesso è stato abbandonato da tempo a vantaggio di altre strategie energetiche, continua a esistere come costo per lo smaltimento delle centrali e dei rifiuti risultanti. Visti gli importi e l’elevata complessità tecnologica in gioco, il mercato del decommissioning nucleare è chiaramente un mercato globale, dove industrie specializzate, come l’italiana Sogin, potranno giocare un ruolo importante. Un’opportunità da cogliere insomma. Starà a noi trasformare questi costi necessari in un’opportunità tecnologica ed economica, consentendo all’Italia e alle sue aziende di entrare in questo mercato altamente specializzato.

Paolo Berra
Paolo Berra
PhD, ingegnere nucleare e imprenditore, ha studiato gli acceleratori di particelle a Milano, Lione e al CERN di Ginevra e Management a Harvard. Si occupa d’ingegneria, innovazione e angel investing.
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