L’esperimento di Michelson e Morley mostrò che l’etere luminifero non esiste, nel contempo verificando l’invarianza della velocità della luce, concetto su cui è fondata la relatività einsteiniana. L’esperimento era stato progettato, in realtà, per verificare l’esistenza di quel misterioso, impalpabile etere che i fisici dell’Ottocento ritenevano pervadere l’intero Universo. L’idea dell’etere, di aristotelica memoria, era tornata in auge quando si era trattato di spiegare le modalità di propagazione della luce.
La natura della luce
Al tempo, era opinione diffusa che la luce avesse carattere ondulatorio, ossia che fosse analoga al suono. Affinché un’onda possa propagarsi, è indispensabile un mezzo le cui particelle entrano in oscillazione, trasferendosi il moto. Nel caso di un suono sono appunto le molecole dell’aria che si pongono in vibrazione, sollecitate dall’onda di pressione generata dalla sorgente. Se la sorgente si trova all’interno di una campana evacuata, il suono non viene più udito. Né si odono suoni provenienti dallo spazio pervaso dal vuoto.
Invece la luce del Sole e delle stelle ci perviene senza difficoltà. Ciò significa – si pensava nell’Ottocento – che debba esistere una sostanza agente da veicolo di trasmissione per la luce, senza essere da noi percepita. Il mezzo che fu invocato fu appunto il fantomatico etere luminifero dell’antichità.
Il paradosso dell’etere
C’erano tuttavia varie difficoltà. Le onde luminose sono di tipo trasversale, e come tali possono prodursi soltanto in un mezzo solido. Si sapeva inoltre che la velocità della luce è di 300 000 km/s, il che è possibile solo se il mezzo ha enorme densità e rigidità. Infatti esso deve vibrare assai rapidamente, ciò che le sostanze soffici e rarefatte non possono fare. Dunque l’etere avrebbe dovuto essere un solido pesantissimo durissimo, e nondimeno così tenue e impalpabile da confondersi con il vuoto! E da lasciare gli astri liberi di viaggiare nello spazio senza incontrare resistenza. Un bel paradosso.
L’esperimento di Michelson-Morley
Alla fine dell’Ottocento, il fisico Albert A. Michelson, e il chimico Edward Morley decisero di verificare in qualche modo l’esistenza dell’etere. Se la Terra viaggia attorno al Sole in questo etere immobile e immutabile – si dissero – essa deve trovarsi soggetta a un vento allo stesso modo di chi corre, un “vento d’etere” anziché d’aria. Noi non percepiamo tale vento, ma la luce sì, poiché dell’etere si avvale per propagarsi. Allora basta confrontare le velocità della luce quando viaggia in favore di “vento d’etere” e quando viaggia di traverso ad esso. Secondo i calcoli di Michelson, la differenza sarebbe stata quasi impercettibile, data la bassa velocità della Terra rispetto a quella della luce. Occorreva perciò escogitare un esperimento di alta sofisticazione.
Decise di ricorrere all’effetto dell’interferenza: se un raggio luminoso viene sdoppiato e le due metà vengono poi ri-sovrapposte su uno schermo, si ha una figura d’interferenza con al centro una macchia circolare di massima intensità se le due onde arrivino allo schermo in concordanza di fase, oppure oscura se giungono in controfase. Costruì un sistema di sdoppiamento del raggio per cui metà di esso avanzava nella stessa direzione in cui si muove la Terra e l’altra metà in direzione perpendicolare: i due raggi avrebbero risentito del “vento di etere” in maniera differente cosicché, pur trovandosi in fase all’avvio, non lo sarebbero più stati all’arrivo sullo schermo.
Interferometro di Michelson.
La trovata geniale fu di far ruotare l’apparato ottico in modo che i due raggi, durante il giro, si scambiassero i ruoli, così da far passare la macchia centrale attraverso condizioni di intensità massima e di buio, un effetto di facile osservabilità. Ciò fu ottenuto in modo stupefacente, permettendo al contempo di eliminare ogni disturbo da vibrazioni ambientali.
Su una base rocciosa fu allestita una piscina in cemento, riempita poi di mercurio. L’apparato ottico fu posto a galleggiare sul mercurio sopra una lastra di marmo, a sua volta sovrapposta a una spessa tavola di legno. L’interferometro poteva così ruotare liberamente ed era disaccoppiato dall’ambiente, tanto da rimanere in moto per tempi lunghissimi. Sorpresa, nulla di quanto previsto fu osservato. Bagarre tra gli scienziati, ipotesi di ogni genere, finché Ernst Mach chiuse il dibattito dicendo «l’etere è una bubbola».
Qualche anno dopo, Einstein stabilì l’indipendenza della velocità della luce da eventuali moti dell’osservatore (ossia del laboratorio): l’esperienza di Michelson e Morley ne era garante. Nel 1907 a Michelson fu assegnato il premio Nobel, forse l’unico per un esperimento fallito. Oggi tutti sanno che la luce non è un’onda meccanica ma un campo elettromagnetico oscillante, che non richiede, per propagarsi, il moto di particelle materiali.
