Diamo la parola a Galileo Galilei per fargli narrare la favola dello scienziato e della cicala, allegoria dell’imparare a sapere di non sapere, dello scoprire l’estensione senza fine dello scibile, e della stimolazione crescente della curiosità, quanto più le si dà soddisfazione. La favola è reperibile anche nel libro Parola di Galileo, da me pubblicato qualche anno fa con Mariapiera Marenzana.
Il testo di Galileo
Ed ecco il gustoso testo galileiano, che è contenuto nel celebre Il Saggiatore:
«Parmi d’aver per lunghe esperienze osservato, tale esser la condizione umana intorno alle cose intellettuali, che quanto altri meno ne intende e ne sa, tanto più risolutamente voglia discorrerne; e che, all’incontro, la moltitudine delle cose conosciute ed intese renda più lento ed irresoluto al sentenziare circa qualche novità.
Nacque già in un luogo assai solitario un uomo dotato da natura d’uno ingegno perspicacissimo e d’una curiosità straordinaria; e per suo trastullo allevandosi diversi uccelli, gustava molto del lor canto, e con grandissima meraviglia andava osservando con che bell’artificio, colla stess’aria con la quale respiravano, ad arbitrio loro formavano canti diversi, e tutti soavissimi.
Accadde che una notte vicino a casa sua sentì un delicato suono, né potendosi immaginar che fusse altro che qualche uccelletto, si mosse per prenderlo; e venuto nella strada, trovò un pastorello, che soffiando in certo legno forato e movendo le dita sopra il legno, ora serrando ed ora aprendo certi fori che vi erano, ne traeva quelle diverse voci, simili a quelle d’un uccello, ma con maniera diversissima. Stupefatto e mosso dalla sua natural curiosità, donò al pastore un vitello per aver quel zufolo; e ritiratosi in sé stesso, e conoscendo che se non s’abbatteva a passar colui, egli non avrebbe mai imparato che ci erano in natura due modi da formar voci e canti soavi, volle allontanarsi da casa, stimando di potere incontrar qualche altra avventura.
Ed occorse il giorno seguente, che passando presso a un piccol tugurio, sentì risonarvi dentro una simil voce; e per certificarsi se era un zufolo o pure un merlo, entrò dentro, e trovò un fanciullo che andava con un archetto, ch’ei teneva nella man destra, segando alcuni nervi tesi sopra certo legno concavo, e con la sinistra sosteneva lo strumento e vi andava sopra movendo le dita, e senz’altro fiato ne traeva voci diverse e molto soavi. Or qual fusse il suo stupore, giudichilo chi participa dell’ingegno e della curiosità che aveva colui; il qual, vedendosi sopraggiunto da due nuovi modi di formar la voce ed il canto tanto inopinati, cominciò a creder ch’altri ancora ve ne potessero essere in natura. Ma qual fu la sua meraviglia, quando entrando in certo tempio si mise a guardar dietro alla porta per veder chi aveva sonato, e s’accorse che il suono era uscito dagli arpioni e dalle bandelle nell’aprir la porta?
Un’altra volta, spinto dalla curiosità, entrò in un’osteria, e credendo d’aver a veder uno che coll’archetto toccasse leggiermente le corde d’un violino, vide uno che fregando il polpastrello d’un dito sopra l’orlo d’un bicchiero, ne cavava soavissimo suono. Ma quando poi gli venne osservato che le vespe, le zanzare e i mosconi, non, come i suoi primi uccelli, col respirare formavano voci interrotte, ma col velocissimo batter dell’ali rendevano un suono perpetuo, quanto crebbe in esso lo stupore, tanto si scemò l’opinione ch’egli aveva circa il sapere come si generi il suono; né tutte l’esperienze già vedute sarebbono state bastanti a fargli comprendere o credere che i grilli, già che non volavano, potessero, non col fiato, ma collo scuoter l’ali, cacciar sibili così dolci e sonori.
Ma quando ei si credeva non potere esser quasi possibile che vi fussero altre maniere di formar voci, dopo l’avere, oltre a i modi narrati, osservato ancora tanti organi, trombe, pifferi, strumenti da corde, di tante e tante sorte, e sino a quella linguetta di ferro che, sospesa fra i denti, si serve con modo strano della cavità della bocca per corpo della risonanza e del fiato per veicolo del suono [si tratta dello scacciapensieri]; quando, dico, ei credeva d’aver veduto il tutto, trovossi più che mai rinvolto nell’ignoranza e nello stupore nel capitargli in mano una cicala, e che né per serrarle la bocca né per fermarle l’ali poteva né pur diminuire il suo altissimo stridore, né le vedeva muovere squamme né altra parte, e che finalmente, alzandole il casso del petto e vedendovi sotto alcune cartilagini dure ma sottili, e credendo che lo strepito derivasse dallo scuoter di quelle, si ridusse a romperle per farla chetare, e che tutto fu in vano, sin che, spingendo l’ago più a dentro, non le tolse, trafiggendola, colla voce la vita, sì che né anco poté accertarsi se il canto derivava da quelle: onde si ridusse a tanta diffidenza del suo sapere, che domandato come si generavano i suoni, generosamente rispondeva di sapere alcuni modi, ma che teneva per fermo potervene essere cento altri incogniti ed inopinabili».
Un racconto sul “sapere di non sapere”
Si tratta dell’apologo dell’uomo che apprende via via modi sempre diversi di generazione dei suoni. Esso è costruito con sapiente maestria: la breve introduzione anticipa e propone come universale la morale con cui si chiude il racconto. Dall’iniziale carattere dolce e fiabesco, sottolineato dalla presenza di diminutivi e vezzeggiativi, si passa a una serie di rapide scene che costituiscono le tappe di un percorso dove il progressivo allargamento delle conoscenze è inversamente proporzionale alle certezze possedute: all’inesauribile ampliamento del campo di indagine corrisponde la percezione sempre più acuta da parte dell’investigatore della propria marginalità e ininfluenza (sensazione che ben doveva conoscere colui che per primo aveva, col suo telescopio, spalancato spazi immensi, prima «incogniti ed inopinabili»). Dopo aver molto imparato, l’uomo si riduce a «tanta diffidenza del suo sapere» da riconoscere di non sapere quasi nulla.
Il suono e il piacere della ricerca
L’oggetto investigato è il suono, la cui generazione può avvenire in infiniti modi. La scelta è emblematica di Galileo, da un lato appassionato di musica, dall’altro scienziato ormai moderno, alla ricerca di meccanismi unificanti, atti a rendere conto di fenomeni disparati.
Il suono è simbolo di trasmissione di energia, di comunicazione, in certo senso di vita. Non esiste fenomeno al mondo che non comporti il trasferimento di energia all’ambiente circostante sotto forma di onde che vanno a stimolare i nostri sensi. Così l’uomo della favola galileiana, attraverso le varie fonti sonore in cui si imbatte, fa l’esperienza del suono associato all’oscillazione di colonne d’aria nella voce e negli strumenti a fiato, quello dovuto allo sfregamento di parti meccaniche, le corde del violino, i cardini di una porta, le ali di un insetto; e anche il suono dell’aria libera causato da uno sbatter d’ali, quello del bicchiere vibrante e delle ance dell’organo, quello infine – non gradevole – delle membrane stridulanti della cicala.
Lo stimolo alla ricerca è il piacere. L’apprendimento avviene all’inizio in modo casuale e «vicino a casa»: a questo stadio il merito dell’uomo è di riconoscere di aver imparato da un semplice pastorello. Poi l’uomo, incuriosito, assume un ruolo più attivo e decide «di allontanarsi da casa», conservando l’umiltà indispensabile per apprendere dagli altri. Alla fine si trova ad agire in prima persona, ma ancora per caso («nel capitargli in mano una cicala»), e si scopre impreparato. Non è ancora giunto all’ultimo gradino dell’apprendimento: sperimentare in proprio. Quando vi si accinge, e qui si ha la svolta inaspettata, l’esperimento fallisce.
Immagine di copertina: Wellcome Images – Wikimedia