Negli anni ’60 del secolo scorso, una donna che aveva l’ambizione di lavorare poteva aspirare a essere una segretaria, un’insegnante, forse una bibliotecaria, un’assistente sociale o al massimo un’infermiera. Osando un po’ di più, avrebbe potuto intraprendere professioni “a lei non consone” ed entrare in competizione con i più competenti uomini a patto di lavorare più a lungo, per guadagnare meno.
Poi sono arrivati i grandi e abbaglianti computer e con loro un lavoro finalmente adatto alle donne: la programmazione. Programmare era considerato un impiego noioso e ripetitivo, una perdita di tempo per matematici e ingegneri ma, al contrario, una professione adatta alle giovani ragazze che erano state già cooptate per “computare” (a mano!) le complicate equazioni richieste nei calcoli balistici durante la Seconda Guerra Mondiale. Per questa attività, le donne ebbero una naturale propensione poiché programmare richiedeva quelle che per gli stereotipi dell’epoca erano considerate capacità tipicamente “femminili”: pazienza, perseveranza e attenzione ai dettagli.
L’era delle Computer Girls
Si era avviata dunque una nuova era, quella delle Computer Girls. Ne era prova l’articolo della rivista Cosmopolitan, pubblicato nell’aprile del 1967, in cui l’autrice Lois Mandel fotografava questa nuova realtà.
Dedicato alle ventimila programmatrici statunitensi, forza dominante nelle nascenti società informatiche dell’epoca, in esso si mostravano le immagini della sistemista IBM Ann Richardson, «pienamente accettata come professionista» dai colleghi di sesso maschile, da lei stessa definiti come amichevoli e ricettivi. Nelle foto a corredo dell’articolo, l’ingegnera Richardson appare come una donna affascinante che indossa un abito all’ultima moda, capelli e trucco impeccabili, ben felice nel suo ambiente lavorativo. Controlla le sue elaborazioni con il sistemista Marvin Fuchs, gestisce con sicurezza i pannelli di controllo della macchina, mostra sorridente ai colleghi la sua attitudine allo sviluppo del software.
Si percepisce finalmente una realtà diversa in cui si intravede qualcosa di sorprendente, quasi come se l’epoca della moglie/casalinga fosse arrivata al capolinea. Sembra che queste lavoratrici abbiano raggiunto il controllo della loro vita lavorativa, percepiscano buoni stipendi e pongano tra i loro obiettivi carriere guidate da aspirazioni intellettuali.
Perché l’informatica è diventata un “lavoro da maschi”?
«I ragazzi generalmente preferiscono il lavoro nei laboratori», cita un rapporto inglese del 1965 che conferma che l’informatica in quegli anni era prettamente al femminile: le donne britanniche, che avevano dominato il lavoro meccanico delle schede perforate nel periodo pre e postbellico, cominciarono a sovrintendere anche alle installazioni dei primi computer governativi.
«Una stagista guadagna 8.000 dollari all’anno, una Senior Systems Analyst più di 20.000!», sottolineava Lois Mandel nel suo articolo del 1967. «Ogni azienda che utilizza o utilizzerà un computer è motivata ad avviare le donne a un percorso di formazione per la programmazione», proseguiva. Con il nuovo mondo dell’informatica, vedeva la luce anche un settore lavorativo svincolato dalla discriminazione sessuale: per una volta, i datori di lavoro preferivano le donne.
Da allora, le cose sono completamente cambiate. Cosa è successo? Com’è possibile che un impiego considerato essenzialmente femminile si sia trasformato in un “lavoro da maschi”?
Nel momento in cui gli uomini si sono accorti che l’arte di programmare si stava rivelando strategica, ne hanno fatto una professione con una forte identità maschile. Il software è stato gradualmente e deliberatamente trasformato in una disciplina di alto livello scientifico di competenza esclusivamente maschile, tanto che molte aziende hanno iniziato ad adottare test di selezione mirati a premiare predisposizioni plasmate sugli stereotipi maschili, abbastanza inutili a individuare le attitudini di un buon programmatore.
L’hardware cominciò a perdere importanza rispetto al software e il settore della programmazione iniziò a popolarsi di uomini attratti dalle opportunità di guadagno che si stavano aprendo. Si crearono delle associazioni professionali nelle quali le donne non furono incluse e si cercò di disincentivarne l’assunzione ponendo in discussione la qualità del loro lavoro con le false accuse di commettere molti più errori dei loro corrispettivi colleghi uomini.
Cominciò da qui la discesa inesorabile e questo fu il punto di non ritorno.
Negli anni successivi, la figura delle donne è stata tenuta nascosta e le loro storie sono state riportate solo nelle riviste specializzate, contribuendo a far dimenticare questo passato al femminile.
L’era dei Computer Boys era dunque cominciata ma non mi pare che nessuno abbia mai utilizzato questa etichetta. Forse devo cercare con più attenzione. Nell’attesa, auguro buon 8 marzo a tutti!
Immagine di copertina copyright: Flickr: IBM Keypunch Machines