Tra gli argomenti più dibattuti e meno “pubblicizzati” nel mondo scientifico, probabilmente l’origine della vita occupa uno dei primi posti in classifica. Se da una parte tra gli scienziati c’è un generico accordo sui processi chimici e fisici che avrebbero portato all’abiogenesi, cioè alla vita da molecole non viventi, diversa è la situazione per quanto riguarda il “dove” e il “quando”.
Tra gli argomenti più dibattuti e meno “pubblicizzati” nel mondo scientifico, probabilmente l’origine della vita occupa uno dei primi posti in classifica. Se da una parte tra gli scienziati c’è un generico accordo sui processi chimici e fisici che avrebbero portato all’abiogenesi, cioè alla vita da molecole non viventi, diversa è la situazione per quanto riguarda il “dove” e il “quando”.
L’ipotesi della panspermia, cioè l’idea che i “semi” della vita sul nostro pianeta provengano dallo spazio, sta perdendo consensi negli ultimi anni, mentre le prove a favore dell’origine della vita negli abissi marini, e in particolare attorno alle sorgenti idrotermali, si accumulano da diverse discipline: paleontologia, astrobiologia, biologia marina.
La vita, quindi, sarebbe nata non al sole e alla luce, ma nel buio, rischiarata dalle esplosioni vulcaniche sottomarine. Di recente, un team internazionale di studiosi, coordinato da Roberto Danovaro, presidente della Stazione Zoologica di Napoli “Anton Dohrn”, ha pubblicato su Nature Ecology and Evolution la scoperta di un nuovo batterio che sembra fornire ulteriore forza al modello dell’origine della vita dagli abissi marini.
Eruzioni sottomarine
Gli studiosi hanno seguito per diverso tempo l’eruzione del vulcano sottomarino Tagoro, nell’Atlantico nordorientale. Questa catastrofica eruzione, durata circa 138 giorni, ha impattato su oltre 9 chilometri quadrati di fondale marino, causando una riduzione della produzione primaria (cioè della conversione in materia organica della CO2 tramite fotosintesi), episodi di mortalità in massa di pesci, e quindi effetti a cascata sui processi biologici e biochimici della zona.
Alla fine dell’eruzione, naturalmente, il fondale risultava privo di ogni forma di vita. In genere, la colonizzazione di zone sottomarine recentemente interessate da eruzioni viene favorita dal fatto che i vulcani sottomarini sono di solito parte di zone vulcaniche, per cui gli organismi possono migrare da una vent all’altra. Invece il Tagoro è un vulcano isolato, quindi perfetto per capire come la vita cominci a colonizzare un territorio vergine senza provenire da aree vicine.
Il team ha scoperto che dopo una trentina di mesi dall’eruzione, la zona sommitale del cratere del Tagoro era coperta da “praterie” di formazioni organiche simili a lunghi capelli bianchi, che si sono rivelati tricomi batterici colonizzati da altri batteri epibionti. Questi tricomi sono originati da un nuovo batterio, chiamato Thiolava veneris.
I capelli di Venere
Il Thiolava ha rivelato di possedere diverse soluzioni biochimiche e metaboliche per colonizzare substrati vulcanici. Infatti, i tricomi, cioè i lunghi filamenti composti di cellule concatenate, sono strutturati in modo tale da costituire un potenziamento delle vie metaboliche del batterio, e anche una barriera per aumentare la tolleranza ai metalli. La struttura, costituita da tre tricomi avvolti in una guaina, permette alla colonia batterica di ancorarsi al substrato, restare in prossimità delle emissioni vulcaniche per ottenere composti utili al metabolismo, e contemporaneamente impedire o limitare la “predazione” da parte di altri protisti; in pratica, Thiolava è perfettamente equipaggiato per colonizzare substrati pericolosi per altri micro-organismi.
Simili organizzazioni batteriche potrebbero essere state tra le primissime forme di vita a colonizzare i fondali oceanici inquieti sul nostro giovane pianeta, miliardi di anni fa.