Le microplastiche sono uno dei più grandi e complicati problemi che affliggono i nostri oceani: vengono così definiti i pezzi di plastica di lunghezza inferiore ai 5 millimetri che sono ormai ubiquitari in ogni mare del pianeta.
Le microplastiche sono uno dei più grandi e complicati problemi che affliggono i nostri oceani: vengono così definiti i pezzi di plastica di lunghezza inferiore ai 5 millimetri che sono ormai ubiquitari in ogni mare del pianeta. Gli studiosi dividono le microplastiche in primarie, che derivano da abrasivi, scrub e pellet plastici, e secondarie, che invece sono il risultato del disfacimento meccanico di detriti plastici di maggiori dimensioni e pare siano anche quelle più diffuse nei mari. Il problema delle microplastiche è molto sentito dalle comunità di studiosi e, in effetti, l’interazione tra organismi marini e questo tipo di materiali ormai è innegabile: le foto virali di organismi planctonici o addirittura di polipi di coralli che hanno inghiottito microplastiche sono drammatiche e illustrano più di fiumi di parole la situazione disastrosa in cui ormai versa il nostro pianeta.
Recenti studi hanno però svelato un lato ancora più mostruoso, se vogliamo, della catastrofe plastica: sembrerebbe infatti che alcuni organismi marini siano addirittura parte attiva nella formazione delle microplastiche secondarie, soprattutto quelli che vivono direttamente sulla plastica. Per esempio sul polistirolo (EPS o Styrofoam) alcuni batteri formano micro-nicchie togliendo via la plastica e gli isopodi lo scavano quando lo trovano galleggiare, come ormai spesso accade attorno alle banchine dei porti. Già, perché molte forme di vita marine ormai si stanno evolvendo per sopravvivere su uno dei substrati più comuni disponibili in mare, cioè – purtroppo – la plastica.
I vermi della plastica
Col termine “verme” si indicano, con grande confusione, molti gruppi differenti di organismi marini. Tra essi i policheti sono tra i più diversi ed evoluti invertebrati: li conoscerete grazie ai lombrichi o alle sanguisughe, e molti di essi sono feroci predatori marini capaci di scavare nel sedimento…o nella plastica. Marphysa sanguinea è un polichete predatore che può raggiungere la considerevole lunghezza di 40 centimetri e che si è adattato (come altri) a vivere scavando nell’EPS: frammenti di questo materiale si trovano lungo le pareti dei suoi tubi e altri vengono ingeriti dall’animale stesso, come confermato da studi sul campo. Però recentemente gli scienziati hanno verificato la capacità da parte di Marphysa di fare a pezzi l’EPS mentre scava. In un articolo pubblicato sul Marine Pollution Bulletin, un gruppo di studiosi coreani capeggiati da Mi Jang dell’Università Coreana di Scienze e Tecnologie, hanno per la prima volta potuto osservare questo polichete in azione su blocchi di EPS. Non solo: hanno anche testato le sue capacità di “produrre” microplastiche direttamente in laboratorio.
Adattamenti ad ogni costo
I risultati di questa ricerca hanno dimostrato che su oltre 85 taxa identificati capaci di vivere in stretta relazione con l’EPS e la plastica, molti sono capaci di interagire al punto tale da produrre microplastiche secondarie. Queste particelle, oltre a contenere sostanze nocive per l’ambiente e per gli organismi, possono essere scambiate per plancton (ed è esattamente quel che purtroppo succede) e quindi essere inghiottite da tanti diversi animali, dai bivalvi fino ai coralli. L’estensione delle gigantesche quantità di microplastiche ormai è, come dicevamo, planetaria e la minaccia che esse rappresentano per le comunità marine è immensa. Ma alla nostra già deleteria azione a quanto pare si unisce anche quella, inconsapevole, degli organismi marini che si sono trovati davanti al solito problema: estinguersi o adattarsi. Purtroppo, la forza devastante che esercitiamo sugli ecosistemi è sempre più dannosa, e ciò che fa meraviglia in realtà è che la maggior parte degli esseri umani continui a ignorare il problema, dimenticando che le risorse a nostra disposizione non sono infinite, e che – ci piaccia o no – questo è l’unico pianeta che abbiamo.
Immagine di copertina: Marphysa sanguinea (Montagu,1815). Credits: © Hans Hillewaert (CC BY-SA 4.0)