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23 Mar 2021

CCS, pozzo senza fondo

Nicola Armaroli

Nicola Armaroli
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In un tentativo estremo di invertire la rotta del cambiamento climatico, l’Unione Europea si è posta due obiettivi da far tremare i polsi: 1) entro il 2030 abbattere le emissioni di CO2 del 55% rispetto al 1990, cioè far meglio nei prossimi 10 anni di quanto fatto negli ultimi 30; 2) entro il 2050 azzerare le emissioni nette per raggiungere la neutralità climatica, cioè eliminare ogni molecola di CO2 residua che produrremo. Di fatto è un modo elegante per dire che in soli 30 anni dobbiamo realizzare la più grande rivoluzione tecnologica, economica e sociale della storia.
Chissà se ce la faremo… Intanto, però, dobbiamo distinguere tra cose che è possibile fare subito e altre che sono di là da venire. Alla prima categoria appartengono efficienza ed elettrificazione. Dobbiamo, cioè, smettere di sprecare energia come se non ci fosse un domani (gli edifici sono spesso dei “colabrodi” termici) ed elettrificare il più possibile; in questa prospettiva, l’uso massiccio dell’elettricità nei trasporti e nel riscaldamento/raffrescamento con pompe di calore è una strada obbligata: abbiamo già le tecnologie elettriche rinnovabili, efficienti, pronte all’uso e competitive sul mercato.
Tra le cose che invece non sappiamo fare, ce n’è una che si sta prendendo la scena: la cattura e lo stoccaggio della CO2 nel sottosuolo, indicata con l’acronimo inglese CCS (Carbon Capture & Storage). Catturare CO2 emessa da miliardi di mezzi di trasporto ed edifici sparsi nel mondo non è praticabile. L’idea, quindi, è di concentrarsi sui grandi emettitori localizzati, ad esempio centrali elettriche a carbone o gas. Ammesso di riuscire a separare la CO2 dalle altre molecole in uscita dalle ciminiere (problema complesso), è improbabile però che il sottosuolo del luogo dove si trova la centrale sia adatto a ospitarla: occorre trasportarla altrove. Separazione, trasporto e iniezione hanno un enorme costo economico ed energetico: almeno il 25% della produzione elettrica di un impianto deve essere utilizzato per far sparire la CO2, ed è un prezzo insostenibile. Non sorprende dunque che i progetti CCS falliscano uno dopo l’altro: un esempio è l’impianto di Petra Nova (Texas) chiuso poche settimane fa, dove la CO2 veniva iniettata nel sottosuolo per rianimare la produzione di un giacimento petrolifero esausto. Una pratica assurda e un buco miliardario.
Va detto poi che la tenuta nel tempo dei depositi geologici non è garantita e che possono insorgere altri problemi tecnici imprevedibili. Il più grande impianto CCS al mondo (quello di Gorgon, in Australia) non ha mai operato regolarmente, perché l’iniezione di CO2 a 2500 metri di profondità fa risalire un mare di sabbia che blocca tutto.
Un’altra opzione può essere quella di catturare CO2 direttamente in atmosfera, tuttavia qui il problema è la bassissima concentrazione della CO2 nell’aria, che condanna gli impianti dimostrativi sparsi nel mondo al ruolo di curiosità tecnologiche prive di un bilancio costi-benefìci accettabile.
Ma il vero ostacolo per il CCS è la scala gigantesca del lavoro da fare. Per limitare l’aumento di temperatura terrestre entro 2 gradi, dobbiamo neutralizzare almeno 1000 miliardi di tonnellate di CO2 nei prossimi 50 anni: è una quantità colossale. Le possibilità che una sola delle strategie di abbattimento artificiale della CO2 (una decina) venga sviluppata a questo livello sono minime. La stessa considerazione vale per promuovere la CO2 da rifiuto con un mero costo di smaltimento (oggi) a materia prima di valore commerciale per l’industria petrolchimica (domani). Per farlo occorrono tempi lunghi e tanta ricerca ben finanziata.
Buona parte dei combustibili fossili deve semplicemente rimanere dove è. Ne prendano atto le aziende che chiedono soldi pubblici del Recovery Fund per tenere in vita il pozzo senza fondo del CCS e non cambiare mai pelle.

Nicola Armaroli
Nicola Armaroli
Nicola Armaroli, direttore di Sapere dal 2014, è dirigente di ricerca del CNR e membro della Accademia Nazionale delle Scienze (detta dei 40). Lavora nel campo della conversione dell’energia solare e dei materiali luminescenti e studia i sistemi energetici nello loro complessità. Ha pubblicato oltre 250 lavori scientifici, 11 libri e decine di contributi su libri e riviste. Ha tenuto conferenze in università, centri di ricerca e congressi in tutto il mondo ed è consulente di varie agenzie e società internazionali, pubbliche e private, nel campo dell’energia e delle risorse. Ha ottenuto vari riconoscimenti tra cui la Medaglia d’Oro Enzo Tiezzi della Società Chimica Italiana e il Premio per la Chimica Ravani-Pellati della Accademia delle Scienze di Torino. È un protagonista del dibattito scientifico sulla transizione energetica su tutti i mezzi di comunicazione (v. qui).
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