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28 Lug 2017

Ogallala

Nicola Armaroli

Nicola Armaroli
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Quando i cowboy arrivarono nelle pianure centrali nordamericane, rimasero probabilmente molto delusi da quei territori aridi, ventosi e inospitali. Non potevano immaginare che sotto i loro piedi fosse annidato quello che in seguito sarebbe stato chiamato Ogallala: un enorme mare di acqua dolce che si estende fino a circa 300 m di profondità, su una superficie pari a una volta e mezzo l’Italia.

Quando i cowboy arrivarono nelle pianure centrali nordamericane, rimasero probabilmente molto delusi da quei territori aridi, ventosi e inospitali. Non potevano immaginare che sotto i loro piedi fosse annidato quello che in seguito sarebbe stato chiamato Ogallala: un enorme mare di acqua dolce che si estende fino a circa 300 m di profondità, su una superficie pari a una volta e mezzo l’Italia.

 

Una miniera di oro blu

Ogallala è un deposito di acqua “fossile” che si è accumulato nel corso di 15 000 anni, a partire dall’ultima Era glaciale. Negli ultimi 60 anni, il suo sfruttamento intensivo ha, per esempio, trasformato artificialmente il Kansas in un gigantesco granaio; si tratta però di una condizione transitoria, destinata a venir meno con il progressivo impoverimento dell’acquifero, che in molte zone ha già raggiunto il 60%. Occorre pescare sempre più in profondità, finché rimarrà qualcosa da portare in superficie. Quando i pozzi si prosciugheranno, il paesaggio ritornerà lo stesso dei tempi del vecchio West, ma con un futuro luminoso ormai alle spalle.

L’accumulo idrico negli acquiferi fossili richiede migliaia di anni, ma l’agricoltura e la civiltà moderne sono molto più frettolose; dall’India alla Cina, dagli Stati Uniti al Medio Oriente, queste preziose riserve di oro blu sono sfruttate in maniera insostenibile. Sotto il deserto saudita l’acqua è già stata completamente estratta; è rimasto solo petrolio, che viene in parte utilizzato per ottenere l’energia necessaria a dissalare l’acqua di mare. Anche al di fuori delle regioni molto aride, l’acqua di falda tiene letteralmente in vita intere nazioni ricche come la Germania (82 milioni di abitanti) o immense aree metropolitane come quella di Buenos Aires (14 milioni).

 

I profughi climatici

 

Stiamo correndo un pericolo tanto grande quanto sottovalutato, perché invisibile agli occhi: la crescente scarsità di acqua dolce, in gran parte prelevata dal sottosuolo, mette oggi a rischio le condizioni igieniche e l’accesso al cibo del 40% della popolazione mondiale. Fra 30 anni ci saranno almeno due miliardi di abitanti in più, in un pianeta sempre più caldo e assetato.
È provato che una delle cause scatenanti della guerra in Siria (e del conseguente esodo di massa) è stata la siccità che ha sconvolto il Paese prima del 2011. In pratica, anche se non ce ne siamo accorti, i profughi climatici bussano già alla nostra porta; e in futuro quei profughi potremmo essere noi.

 

L’Italia e il problema dell’acqua

Non serve infatti cambiare continente per toccare con mano il problema dell’acqua. Nella Valle del Po siamo alla terza crisi idrica in 10 anni (2007, 2012, 2017). Il Grande Fiume è sfinito da un inverno senza neve su buona parte dell’arco alpino e da una delle primavere più secche di sempre. L’Emilia Romagna ha chiesto lo stato di emergenza al governo. La cosa non è sorprendente, visto che le temperature in regione sono aumentate di 1,5 gradi in 50 anni, il triplo della media globale.

Ironia della sorte, mentre scrivo queste righe, si scatena un temporale di violenza inaudita, da Paese tropicale. Guardo fuori dalla finestra sbigottito: un mare di acqua scivola velocemente sulle strade e sui terreni induriti dalla siccità. Poco o nulla raggiungerà le falde acquifere esauste delle campagne emiliane. Sento passare un mezzo dei vigili del fuoco a sirene spiegate: devono liberare le strade da alberi sradicati e pali divelti. Chiudo gli occhi e penso che stiamo ingaggiando una battaglia impari contro le forze della natura.
Per anni abbiamo discusso fino allo sfinimento sull’esistenza del cambiamento climatico, nel frattempo lui si è preso la scena senza chiedere permesso. Speriamo di farci trovare più preparati sulla crisi idrica, prima che i nostri Ogallala si secchino e ci si ritrovi come cowboy delusi in cerca della terra promessa.

 

(Editoriale tratto da Sapere 4/2017)

Nicola Armaroli
Nicola Armaroli
Nicola Armaroli, direttore di Sapere dal 2014, è dirigente di ricerca del CNR e membro della Accademia Nazionale delle Scienze (detta dei 40). Lavora nel campo della conversione dell’energia solare e dei materiali luminescenti e studia i sistemi energetici nello loro complessità. Ha pubblicato oltre 250 lavori scientifici, 11 libri e decine di contributi su libri e riviste. Ha tenuto conferenze in università, centri di ricerca e congressi in tutto il mondo ed è consulente di varie agenzie e società internazionali, pubbliche e private, nel campo dell’energia e delle risorse. Ha ottenuto vari riconoscimenti tra cui la Medaglia d’Oro Enzo Tiezzi della Società Chimica Italiana e il Premio per la Chimica Ravani-Pellati della Accademia delle Scienze di Torino. È un protagonista del dibattito scientifico sulla transizione energetica su tutti i mezzi di comunicazione (v. qui).
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