Rex Tillerson è il segretario di Stato USA; esercita importantissime funzioni tra cui quella di ministro degli esteri. Prima di lavorare alla Casa Bianca, faceva l’amministratore delegato di Exxon-Mobil, la più grande multinazionale petrolifera occidentale. Venti giorni fa, in occasione della riunione dei paesi che si affacciano sull’Oceano Artico, ha sottoscritto una dichiarazione in cui si prende atto della minaccia dei cambiamenti climatici e si sottolinea l’importanza degli accordi di Parigi. Ha cercato di convincere Donald Trump a non cancellare gli impegni siglati dal suo predecessore. Non c’è riuscito, come non ci sono riusciti i leader del G7, Papa Francesco e sua figlia Ivanka.
Rex Tillerson è il segretario di Stato USA; esercita importantissime funzioni tra cui quella di ministro degli esteri. Prima di lavorare alla Casa Bianca, faceva l’amministratore delegato di Exxon-Mobil, la più grande multinazionale petrolifera occidentale. Venti giorni fa, in occasione della riunione dei paesi che si affacciano sull’Oceano Artico, ha sottoscritto una dichiarazione in cui si prende atto della minaccia dei cambiamenti climatici e si sottolinea l’importanza degli accordi di Parigi. Ha cercato di convincere Donald Trump a non cancellare gli impegni siglati dal suo predecessore. Non c’è riuscito, come non ci sono riusciti i leader del G7, Papa Francesco e sua figlia Ivanka.
Una scelta irrazionale
È veramente difficile capire le ragioni di una scelta così irrazionale. La pancia ha prevalso sulla testa: la volontà di mantenere a tutti i costi alcune improbabili promesse elettorali, l’ossessione di cancellare qualsiasi traccia dell’era Obama. Non importa nulla che il 98,8% dei climatologi mondiali concordi sul fatto che le attività umane siano le principali responsabili del cambiamento climatico. Evidentemente Donald Trump salirebbe su un ponte che il 98,8% degli ingegneri mondiali dichiara pericolante. E con lui qualche milione di sostenitori, localizzati principalmente nell’America profonda, persone che chiedono ricette semplici a problemi complessi e viene quotidianamente accontentata. Finché l’incantesimo durerà.
Già prima della decisione di ieri, l’amministrazione Trump ha fatto enormi passi indietro nella politica ambientale ed energetica. Ad esempio ha nominato Scott Pruitt alla guida dell’EPA, l’agenzia federale per la protezione dell’ambiente: un politico repubblicano di scarsa fortuna, già avvocato generale dello stato dell’Oklahoma, vicinissimo della lobby dei petrolieri. Il governo ora propone un taglio di oltre il 30% dei fondi alla EPA, con la cancellazione di tutti i progetti sui cambiamenti climatici e il licenziamento di migliaia di persone; in pratica, una liquidazione. I fondi saranno dirottati alla difesa.
E adesso?
Le decisioni di Trump, saranno davvero un colpo mortale alle speranze di mettere sotto controllo la febbre del pianeta? Se entrassero tutte in vigore domattina e Trump fosse un monarca assoluto potrebbero avere un effetto rilevante. Fortunatamente la realtà è ben più complessa: gli USA sono una repubblica federale e una democrazia dotata di robusti contrappesi al potere presidenziale.
Lo scenario che si profila all’orizzonte del miliardario newyorkese è tutt’altro che tranquillo. Molti governatori di singoli stati USA hanno già dichiarato di voler rispettare gli accordi di Parigi, da ultimi quelli di Vermont e Massachusetts, entrambi del partito di Trump. La California – che da sola rappresenta il 15% dell’economia USA – continuerà nella sua politica energetica e ambientale, la più innovativa al mondo. Praticamente tutti gli stati della costa del Pacifico e dell’Atlantico la seguiranno. Idem le grandi metropoli, a cominciare da New York. I provvedimenti di Trump incontreranno opposizione persino nelle assemblee legislative, nonostante i Repubblicani godano di una solida maggioranza (ma le elezioni di medio termine distano solo 16 mesi …). I mal di pancia all’interno del partito repubblicano si moltiplicano: l’umiliazione dell’EPA – fondata dal presidente repubblicano Richard Nixon nel 1970 – viene vissuta da una parte del partito come uno schiaffo al contributo dei conservatori americani nella salvaguardia ambientale e paesaggistica. Infine, le potenti associazioni ambientaliste USA sono pronte a dare battaglia nei tribunali e l’industria americana delle rinnovabili, in pieno boom, non resterà certamente con le mani in mano.
Lo scenario più probabile è quindi una sorta di Vietnam politico interno, alimentato dal fatto che i due maggiori competitori economici, Cina e Unione Europea, hanno ribadito la volontà di continuare sulla strada degli accordi di Parigi. Uno scenario rafforzato dalla certezza che l’industria dei combustibili fossili è entrata nella fase conclusiva della sua parabola. Non saranno le promesse di Trump ai minatori di carbone della West Virginia a far deragliare una transizione mondiale irreversibile, come la ha definita di recente Obama su Science. L’industria del carbone USA non uscirà dalla sua agonia.
Va poi rimarcato un fatto cruciale. Quella di Trump è una pura dichiarazioni di intenti. Gli USA infatti non potranno uscire ufficialmente dall’accordo di Parigi fino a Novembre 2020. Questo perché l’accordo richiede un processo triennale per il ritiro. Ma nessun paese può dare notizia ufficiale del suo intento di uscire dal patto fino al 4 Novembre 2017, esattamente un anno dopo l’entrata in vigore dell’accordo stesso. Quindi fino al 4 Novembre 2020 NON può esserci un’uscita ufficiale. Le prossime elezioni presidenziali USA si terranno il 3 Novembre 2020. Quindi l’ultima parola spetterà … al vincitore del 2020.
Un colpo a… se stesso
Con la sua decisione, Trump si unisce agli unici due paesi che non hanno sottoscritto gli accordi di Parigi: Siria e Nicaragua. Si è messo in compagnia del criminale di guerra Bashar al-Assad e di Daniel Ortega, ex capo della rivoluzione sandinista ora accusato di una gestione molto disinvolta e familista del potere. Neppure uno sceneggiatore di Hollywood avrebbe potuto mettere un Presidente USA a fianco di questi due improbabili compagni di viaggio. Con questa decisione, Trump ha gettato gli Stati Uniti nel baratro di un discredito internazionale senza precedenti.
Ma sarà tanto rumore per poco o nulla: gli effetti di questa scelta sulla lotta globale ai cambiamenti climatici saranno molto meno rilevanti di quel che si teme. Donald J. Trump sta principalmente infierendo un duro colpo a se stesso. Se voleva dimostrare di essere inadeguato al ruolo che ricopre, non poteva compiere una scelta più azzeccata. Giovedì 1 Giugno 2017 ha dato inizio alla fine della sua carriera politica.
Per saperne di più:
– El Niño: dal Pacifico equatoriale all’intero globo
– Antropocene: alleanza e conflitto tra uomo e natura
– Il ponte del consenso e le cause del riscaldamento globale