Non so se ogni tanto accade anche a voi, ma a me a tratti viene forte una sensazione di straniamento dalla realtà, come se quella che viviamo non sia quella vera. Saranno i due anni pandemici, sarà che dopo i due anni pandemici – non ancora finiti – un ristretto numero di individui ha pensato bene di dar seguito a una guerra aperta in Ucraina (la guerra in Donbass c’era già dal 2014, ma qui gli echi non erano arrivati), sta di fatto che ogni tanto si fa acuta la percezione di essere piombati in un mondo parallelo.
Energia: un ritorno al passato?
A questa sensazione contribuiscono le politiche energetiche nazionali – per ora limitate a dichiarazioni – che sembrano farci tornare indietro nel tempo, anziché, questo tempo, proiettarlo in avanti.
Le scelte, a lungo procrastinate, d’improvviso si fanno urgenti, catalizzate, accelerate da una guerra che, proprio sul settore energetico e nell’approvvigionamento di alcune materie prime, incide. Senza essere sistematici: il 25 febbraio scorso il Presidente del Consiglio Mario Draghi, a fronte della crisi Ucraina, ha paventato senza mezze parole la possibile riapertura di centrali a carbone, parola capace di evocare nel mio personale immaginario la Londra delle malattie polmonari causate dallo smog (crasi, lo ricordiamo, di “smoke”, fumo, e “fog”, nebbia…); sulle dichiarazioni del Ministro della Transizione Ecologica invece mi astengo, altrimenti l’elenco del “ritorno al passato” si farebbe davvero molto lungo.
A dar “man forte” a una certa politica retriva poi ci si mette anche un certo giornalismo: in un paio di occasioni – la più recente durante la trasmissione “TG2 Post” del 17 marzo 2022 – il direttore del TG2, Gennaro Sangiuliano ha tirato fuori, per l’ennesima volta, la questione del “nucleare verde” o di “quarta generazione” e del gas, che dovrebbero essere annoverate tra le fonti “verdi”. Fortuna ha voluto che l’interlocutore seduto di fronte a Sangiuliano fosse il Ministro per le Politiche Agricole, Alimentari e Forestali Stefano Patuanelli, che ha detto quel che andava detto:
1) il gas NON è una risorsa “verde”;
2) il nucleare verde non esiste e quello di “quarta generazione” – di fusione anziché di fissione – è in fase di ricerca e studio almeno dalla fine della Seconda guerra mondiale (per carità si vada avanti, ma non lo si può annoverare oggi, tra le fonti…);
3) ammesso e non concesso (ed è sicuramente non concesso visto che ci sono stati referendum popolari che hanno fatto esprimere il popolo italiano contro il nucleare) di costruire oggi una centrale nucleare tradizionale (a fissione), ci vogliono 15-20 anni prima che diventi operativa (lo ricorda anche Armaroli qui). In casi eccezionali i tempi si abbassano a 10 anni, per tacere dei costi, però, che devono comprendere l’intero ciclo di vita: la costruzione, la messa in opera, la manutenzione durante la fase di esercizio e infine lo smantellamento a fine vita. E i costi in Italia, lo sappiamo, lievitano come neppure riesce la pasta della pizza.
Energia solare: l’unica soluzione
Patuanelli molto serenamente ha ribadito, di nuovo, quel che andava detto: l’unica fonte rinnovabile è il sole che può essere sfruttato “direttamente” (pannelli fotovoltaici, solare termico) o “indirettamente” (il sole genera le correnti d’aria che fanno funzionare le pale eoliche): dobbiamo puntare massicciamente a quello. Certo, abbiamo ancora qualche problema con gli stoccaggi: ma la ricerca sulle batterie e sulle eventuali centrali di produzione dell’idrogeno – che può essere realizzato, quello sì davvero in maniera “verde”, dall’acqua mediante elettrolisi, grazie al surplus di produzione di energia elettrica degli impianti rinnovabili – può e deve essere incentivata. Ma siamo il Paese del sole, sì o no, o questo vale solo per O sole mio e per il turismo?
Una transizione energetica necessaria
Il professor Leonardo Setti dell’Università di Bologna, in un seminario online tenutosi qualche giorno fa sulle comunità energetiche e sul quel virtuoso laboratorio che continua a essere l’Emilia Romagna, ha mostrato una diapositiva che, da sola, riassume il futuro cui andremo incontro, indicando come la transizione energetica non sia più, ormai, una scelta, ma un obbligo.
I climatologi ci avvertono che gli eventi estremi dovuti ai cambiamenti climatici raddoppiano ogni 5 anni. Secondo l’ultimo rapporto dell’Organizzazione metereologica mondiale negli ultimi 50 anni eventi estremi come tempeste, inondazioni e siccità sono cresciuti di ben cinque volte. Se negli anni ’70 il mondo aveva infatti una media di circa 711 disastri all’anno, dal 2000 al 2009 si è arrivati a 3536 all’anno, circa dieci al giorno.
D’altro canto, se questo non bastasse a giustificare l’aspetto coercitivo della transizione, c’è il fatto, semplice e incontestabile, che petrolio e gas si stanno esaurendo sempre più rapidamente – siamo pur sempre otto miliardi di individui, in crescita… – e per il 2035 questi due idrocarburi saranno così “rari e preziosi” che sarà impossibile immaginare possano mandare avanti un’economia, come accade adesso.
50 anni da “I limiti dello sviluppo”
Poi, a farci ripiombare, almeno in parte, sempre in questa specie di mondo parallelo, esce, il 16 marzo 2022, su Nature un editoriale che ricorda i 50 anni dalla pubblicazione del rapporto The Limits to Growth, pubblicato in italiano nel 1972 come I limiti dello sviluppo e, in una seconda edizione del 2018, con il titolo, più fedele all’originale, I limiti alla crescita. L’editoriale è un po’ curioso perché sembra fare una specie di reset, come se 50 anni di dibattito fossero trascorsi invano e non abbiano portato da nessuna parte, almeno a giudicare da titolo e sottotitolo che, se ancora capisco un po’ l’inglese americano, dice “Ci sono limiti alla crescita? È ora di porre fine a una discussione di 50 anni” (titolo) e “I ricercatori devono risolvere una disputa sul modo migliore per utilizzare e curare le risorse della Terra” (sottotitolo).
Intanto, per quanto detto qui sopra, la questione sembra sostanzialmente mal posta: la discussione “lunga 50 anni” finisce se si raggiunge un accordo che però non deve essere necessariamente all’interno della comunità scientifica, anzi; per essere efficace l’accordo dovrebbe essere tra i decisori politici. Gli scienziati, i ricercatori possono essere d’ausilio e, in certi casi – e il caso della pandemia da Covid-19 – avere anche un ruolo determinante, ma se e solo se ascoltati dalla classe politica che prende le decisioni, altrimenti le loro teorie, le loro strategie, la loro capacità di indicare le possibili strade da seguire, rimangono lettera morta. Quindi, e passo al sottotitolo, non sono i ricercatori che devono risolvere la disputa su quale sia il modo migliore di usare le risorse della Terra, salvaguardandole, ma i politici. Magari ben informati e consigliati dagli scienziati (si veda il caso virtuoso di Patuanelli che però, è bene ricordarlo, ha una laurea in ingegneria, conseguita con 110 e lode).
E qui sorge il primo drammatico ma ben noto problema: scopo del politico è essere rieletto e le sue decisioni, oltre a essere volte al compiacimento dell’elettorato (o di altro), hanno l’orizzonte del mandato che, quando va bene, ha scadenza dopo 4 anni. Le politiche energetiche – ma di ogni tipo in realtà, economiche, sociali… – hanno orizzonti che per loro natura vanno oltre i 4 anni. Da qui la prima, spesso insanabile, frattura che ha fatto naufragare molti buoni programmi.
L’editorialista ammette candidamente che la rivista stessa accolse nel 1972 piuttosto criticamente lo studio del MIT Group, definendolo «un’altra ventata di apocalisse». Il senso del sottotitolo però si comprende meglio leggendo l’intero brano: la disputa sarebbe da ricondursi all’agone che vede contrapposti gli scienziati nella sfera delle hard sciences (fisica, matematica, chimica, biologia) e quella curiosa classe di scienziati che appartengono alle scienze sociali ma che amano mascherarsi da scienziati “duri” e ammantare la loro disciplina da scienza di quel tipo, gli economisti.
Non è questa la sede per una discussione sullo statuto dell’economia, ma corre l’obbligo di ricordare almeno un libro che racconta le origini di questa “passione” per la matematica dell’economia: La mano invisibile. L’equilibrio economico nella storia della scienza di Bruna Ingrao e Giorgio Israel. Quest’ultimo è solo uno dei tanti testi che, in qualche modo, criticano alcune delle basi dell’economia come disciplina. Una critica che arriva anche in tempi che, guarda caso, possono ricondursi a quegli anni ’70 in cui il fermento era forte e alcune delle fondamenta venivano ridiscusse. Mi riferisco al saggio Lo stato stazionario. L’economia dell’equilibrio biofisico e della crescita morale di Herman Daly, economista eterodosso, allievo di Nicholas Georgescu-Roegen, che nell’introduzione al libro, nel 1977 scrive:
Il riconoscimento dell’esistenza di problemi di economia politica che hanno una soluzione morale e non tecnica, è nettamente in contrasto con la moderna teoria economica. Eppure l’economia ebbe inizio come branca della filosofia morale e il contenuto etico fu almeno tanto importante quanto quello analitico fino agli scritti di Alfred Marshall. [Nota a piè di pagina: Per esempio, nel primo manuale di economia politica (T. R. Malthus, Principles of Political Economy) troviamo la seguente affermazione: «È stato detto, e forse con verità, che le conclusioni dell’economia politica partecipano della certezza delle scienze esatte più della maggior parte degli altri rami del sapere umano… Ci sono invero nell’economia politica grandi principi generali … ma si dovrà necessariamente riconoscere che la scienza dell’economia politica ha più stretta somiglianza con la scienza della morale e della politica che non con quella della matematica».]
Da allora la struttura della teoria economica divenne sempre più sovraccarica di strumenti analitici. Strati sovrapposti di astrusi modelli matematici furono eretti sopra le sottili fondamenta concrete dei fatti. Il comportamento di un contadino che vende una mucca fu analizzato in termini di calcolo delle variazioni e di moltiplicatori di Lagrange. Dalla prospettiva angelica di iperpiani che si slanciano nello spazio n-dimensionale, gli economisti si lasciarono sfuggire alcuni fenomeni critici biofisici e morali. I fenomeni biofisici si manifestano sotto forma di crescente povertà ecologica: esaurimento di risorse, inquinamento e rottura di equilibri ecologici. I fatti morali si manifestano sotto forma di scarsità esistenziale crescente: ingiustizia, stress, alienazione, apatia e crimine.
Insomma, in fin dei conti l’economista è quella persona che, di fronte alla tristezza del libro di cui è autore, finito sulle bancarelle del mercatino dell’usato, in cuor suo gioisce perché il libro in realtà potrebbe venir venduto una seconda volta. Ed è anche quella persona che di fronte a una risorsa finita come il petrolio, quando il suo consumo è prossimo allo zero, come durante i lockdown duri che abbiamo vissuto negli ultimi due anni, dice che la risorsa diventa infinita perché il tasso di consumo è prossimo allo zero, solo perché un numero a piacere diviso “quasi” zero, dà come risultato “quasi” infinito, con un conseguente prezzo bassissimo che, in poco più di un anno, diventa da record a causa di una guerra. Vatti a fidare!
La differenza (e il dibattito) è quindi tra una visione strettamente biofisica – con le ineluttabili leggi che ne conseguono – e una visione in qualche modo relativa e relativizzata della realtà. Ma di questo l’editoriale di Nature non parla, sebbene si possa senz’altro essere d’accordo con la conclusione a cui giunge: il dibattito tra economisti (“crescisti” per definizione) e gli scienziati hard – i cui capostipiti sono stati i cinque del MIT Group – insieme ai mille altri dibattiti che possono esserci stati in 50 anni, hanno di fatto paralizzato e impantanato le scelte, facendo il gioco dell’economia BAU (business as usual) e dello status quo. “Nel 1972, c’era ancora tempo per discutere e meno urgenza di agire. Ora, il mondo non ha più tempo”, conclude l’editoriale, e su questo siamo d’accordo. Meno d’accordo siamo sulle cause di questi 50 anni di ritardo, ma questo non cambia la sostanza delle cose.

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