Nei prossimi anni ci aspetta una serie davvero impressionante di ambiziose transizioni, imposte, fortunatamente, dagli obiettivi UE (2030 e 2050) e dalle scadenze del Next Generation EU (2022-2027). Per una descrizione dettagliata degli obiettivi e delle scadenze rinvio ai bellissimi interventi di Nicola Armaroli facilmente reperibili su Sapere e You Tube. In estrema, e riduttiva, sintesi si può dire che sono transizioni ambientali e digitali di portata epocale, che a loro volta trascinano transizioni nelle infrastrutture energetiche, nei trasporti, nell’uso del territorio, nel patrimonio edilizio abitativo e pubblico, nel recupero e riuso delle risorse.
Alcune scadenze, UE2030 e Next Generation, sono estremamente ravvicinate e si potranno realizzare solo utilizzando tecnologie già esistenti, mentre quelle più distanti, UE2050, richiedono mastodontici investimenti in ricerca di base per alimentare nuove tecnologie poiché quelle oggi disponibili sono palesemente inadeguate agli obiettivi posti. Cornice di tutti questi sforzi è la necessità di mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici.
Transizione ecologica e digitale: ce la faremo?
Sono obiettivi realistici? Lo sono, sia sulla base delle conoscenze e delle tecnologie oggi disponili sia sulla base della credibilità delle previsioni degli sviluppi delle ricerca scientifica.
Ce la faremo? È possibile farcela, dipende dalla entità degli sforzi e dalla tenacia delle scelte fatte dagli Stati, dagli apparati industriali pubblici e privati, e soprattutto dai Governi, che dovranno dominare cambiamenti di dimensione e rapidità inusitati. Si è visto con i vaccini anti Covid-19. Le accelerazioni possono essere strabilianti. Molti Paesi stanno accrescendo ulteriormente i già cospicui fondi destinati alla ricerca scientifica di base e finalizzata e rafforzano le Università, i Centri di ricerca tecnologica, tutto il sistema dell’Istruzione. La disponibilità di personale qualificato in tutti i settori sarà il fattore strategico decisivo. Stati Uniti, Cina, Germania, Regno Unito, Corea, Giappone sono leader in queste scelte. L’Unione Europea nel suo insieme ha dimostrato fragilità preoccupanti, ma continua ad essere protagonista in questo scenario.
Rispondere alla crisi con i finanziamenti
E l’Italia? Certo, in qualche modo si inserirà in questo flusso, ma da quali condizioni parte? Mi limito ad alcune osservazioni sui finanziamenti all’Università con riferimento alla tabella che illustra l’evoluzione nei dieci anni successivi al 2008, quando esplose la grave crisi finanziaria. È semplice, ma istruttiva. In Italia non solo si è investito poco in assoluto, ma si è investito sempre meno, con un decremento di circa il 15% negli ultimi 10 anni. Solo la Spagna ha fatto peggio, ma con un investimento per abitante comunque superiore. Gli altri Paesi hanno accresciuto le risorse per le loro Università, come una delle risposte alla crisi.
Si sono così consolidati gli indici ben noti: pochi studenti universitari, pochi laureati, e molti emigrano, basso utilizzo di fondi di ricerca europei (gli italiani ne vincono, ma spesso li utilizzano all’estero), utilizzo distorto dei dottorati di ricerca, pochi ricercatori, di cui molti precari decennali, pochi brevetti, pochi laureati impiegati nelle piccole e medie aziende, poco trasferimento tecnologico, e così via. Una litania persino fastidiosa, ormai, se non fosse che riguarda i nostri giovani.
E in questo caso non è neanche possibile incolpare del declino unicamente i “politici”. Da decenni ormai la Conferenza dei Rettori è l’interlocutrice privilegiata dei Ministri su tutte le materie sensibili, a scapito degli organi deputati quali il Consiglio Universitario Nazionale. Anzi, i Ministri stessi sono molto spesso stati dei Rettori. Da Luigi Berlinguer ad oggi si sono succeduti 14 Ministri, di cui 7 Rettori e 2 o 3 professori universitari. Purtroppo hanno gestito il declino, e non hanno saputo e voluto reagire.
Considerazioni analoghe valgono per gli altri ordini di scuola. L’intero sistema dell’Istruzione è in crisi in Italia, e le stime OCSE sono impietose.
Istruzione in Italia: un grave deficit formativo
Questo deficit formativo sarà il più grave ostacolo alla nostra partecipazione da protagonisti alle transizioni che ci attendono. Qui non si parla della capacità dei singoli, ma del livello di istruzione diffuso del Paese.
Tuttavia il processo non è irreversibile. Le tradizioni pedagogiche della nostra Scuola sono solidissime e vitali. I ricercatori delle nostre Università e Centri di Ricerca sono ancora tra i più quotati al mondo. Le condizioni per recuperare ci sono, ma occorre farlo con determinazione. Non ci sono scorciatoie, occorrono anni.
E non si deve continuare a baloccarsi con alternative inesistenti: “finanziamo il sistema o ci concentriamo sulle eccellenze”?
Occorre fare insieme le due cose: coltivare le eccellenze che esistono e le nuove che si possono stimolare, ma sapendo che è l’intero sistema formativo ad alimentarle.
Il Next Generation EU pone Istruzione e Ricerca al centro delle sue missioni e offre gli strumenti finanziari per rafforzare le strutture della nostra Scuola e delle Università e Centri di Ricerca. Nei prossimi giorni vedremo finalmente il testo da sottoporre alla UE. È un passo importante, un’occasione irripetibile. Ma dobbiamo sapere che questi obiettivi sono permanenti, vanno al di là del 2027 e si devono consolidare nei Bilanci Ordinari dello Stato.
Il sistema dell’Istruzione, così come la Sanità, non deve più essere il bancomat cui attingere per risolvere i problemi finanziari contingenti di altri settori. Sono proprio loro le priorità, e in questi lunghi mesi abbiamo sperimento quale prezzo si paga quando vengono sacrificate.