In una vecchia canzone, Bella speranza, Ivano Fossati ci ricordava che «solo un grande scrittore fa muovere insieme i vivi e i morti» e forse uno scrittore che promette bene in questo senso, che di scienziati e di scienza scrive, c’è e si chiama Benjamìn Labatut. Il nome suona francesissimo, ma pare che la giovane promessa – classe 1980 – sia olandese (almeno di nascita: Rotterdam, dice la scarna nota biografica delle traduzioni italiane arrivate sui nostri scaffali grazie all’inossidabile Adelphi) anche se attualmente vive all’altro capo del mondo, in Cile.
Le origini del collettivo Luther Blisset
Diversi anni fa, nel 2009, un gruppo di scrittori, riuniti sotto lo pseudonimo collettivo Luther Blissett, saliti alla ribalta delle cronache sia per una serie di azioni semiserie, volte alla presa in giro dell’establishment dei media, sia – soprattutto – per lo splendido romanzo Q, si lanciò in una indagine sulla letteratura contemporanea italiana.
Attenti osservatori della scena narrativa nazionale, avevano già cambiato pseudonimo collettivo – il Luther Blissett Project era “stato suicidato” nel 1999 – in favore di Wu Ming, nome con il quale molti li conoscono, e il libriccino breve e densissimo che ne uscì aveva per titolo New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro. Al suo interno si trova quella “non definizione” che mi ha fatto venire in mente la lettura dei due libri di Benjamìn Labatut: un oggetto narrativo non identificato (o, in inglese UNO: Unidentified Narrative Object). Insomma, il problema è banalmente tassonomico: finiti di leggere, con grande soddisfazione, non so in quale scaffale posizionare i libri di questo autore. A onor del vero non che si tratti della prima volta, ma mi pare che con Labatut questo sia più vero che con altri.
I libri di Benjamìn Labatut
Passiamo alla sostanza. I libri, abbiamo detto, sono due: Quando abbiamo smesso di capire il mondo (trad. it. 2021) e Maniac (trad. it. 2023). Al primo mi piacerebbe dedicare uno spazio a parte anche per dar seguito a una congettura tra la vita cilena dell’autore e l’interesse verso la biografia di Fritz Haber (e delle storie che intorno a essa si intrecciano, molto spesso in modo carsico e per nulla evidente).
Il secondo volume riguarda la sfaccettata biografia di John von Neumann. Già, ma davvero una “biografia” in senso stretto? Si potrebbe definire una biografia romanzata e forse è la definizione che meglio si avvicina a questo UNO.
Sia nel primo che nel secondo libro Labatut, per quanto alla fine, ma forse alla fine perché non ci vuole rovinare la magia della lettura, attacca i suoi ringraziamenti con un disclaimer: «Questo libro è un’opera di finzione basata sulla realtà» e tanto, alla fine, ci può bastare. Non vorrei infatti che l’attenzione fosse eccessivamente centrata su questo elemento, perché i pregi del libro sono altri, a partire dai personaggi “chiamati in causa”, di volta in volta, a tratteggiare la figura di von Neumann: genio pazzo, sregolato, ma anche mite e fanciullesco. Per certi aspetti lo stereotipo del genio rigorosamente raccontato da chi gli è stato intorno, a partire dai professori che ha avuto e che molto velocemente hanno capito le potenzialità e il genio di von Neumann, fino ad arrivare agli amici di una vita, come Eugene Wigner.
La tessitura narrativa è interessante: l’impressione, a libro chiuso, è quella di aver assistito a una rappresentazione teatrale dove, nel pieno del buio e del silenzio, di volta in volta l’occhio di bue illumini i narratori, voci rigorosamente singole, le cui vite hanno incrociato e incontrato – per lassi di tempo più o meno brevi – il protagonista, la cui “voce” invece non ascoltiamo mai. Carlo Rovelli sarebbe forse felice di trovare in questo espediente narrativo così efficace il tratto distintivo di una sua teoria quantistica: senza interazione è come se nulla fosse esistito. Nello specifico: von Neumann non comparirebbe, ma proprio questa modalità narrativa ci restituisce “gratis” il senso della complessità della figura dell’uomo e dello scienziato von Neumann.
Von Neumann e i suoi mille interessi
Scienziato dalla vita densissima e, neppure a dirlo, interessantissima, nonostante l’assenza di etica – ai nostri occhi di comuni mortali – in relazione alle scelte compiute su questioni delicate come l’atomica, l’incoraggiamento alla prosecuzione degli studi verso ordigni sempre più potenti, la teoria dei giochi di cui è stato padre e grazie alla quale sono stati riscritti alcuni fondamenti dell’economia, ma che hanno dato luogo a quello che, nel quarantennio di guerra fredda, portò alla corsa agli armamenti e alla MAD, mutual assured destruction, la distruzione mutua assicurata, in caso di lancio (anche per errore!) di testate nucleari da parte di uno dei due blocchi contrapposti.
Una vita spesa verso mille interessi che però a un certo punto convergono, consegnandolo alla storia – insieme ad Alan Turing – come il padre dei calcolatori per come oggi li conosciamo. Questo quel che accade per i quattro quinti di un libro che si legge davvero come un romanzo d’avventura e che, voce dopo voce, compone il quadro dell’uomo controverso che von Neumann fu, ma anche delle eredità feconde che ci ha lasciato.
Da von Neumann ai giorni nostri
Proprio a questo sviluppo è quindi dedicata l’ultima parte del libro che, sepolto von Neumann, ci trasporta, ai giorni nostri e si focalizza su Lee Se-dol (classe 1983), giovane ex campione mondiale sudcoreano di Go e Demis Hassabis (classe 1976), fondatore della startup DeepMind, successivamente ceduta a Google, con la quale ha successivamente creato AlphaGo.
Questa non è più storia e neppure non-fiction novel, ma banalmente cronaca di ieri: Lee Se-dol viene invitato – o forse meglio bisognerebbe dire: sfidato – a giocare al gioco in cui è indiscusso campione mondiale dall’azienda DeepMind, un po’ sulla falsariga di quel che accadde a Garri Kasparov diversi anni prima con la sfida, altrettanto epocale, contro Deep Blue della IBM. Solo che, come ci avvisa l’autore, gli scacchi sono cosa ben diversa dal gioco del Go, la cui complessità è decisamente inferiore.
Per quanto elevate siano infatti le possibilità, il numero di mosse degli scacchi è in qualche modo “codificabile” e un calcolatore di buon livello con la semplice applicazione di quella che tecnicamente si chiama “forza bruta” – il sondare cioè tutte le possibili “soluzioni” – è in grado di sconfiggere, per “pura potenza di calcolo” potremmo dire, anche l’umano più bravo. Gli scacchi hanno 64 caselle, con i pezzi già schierati all’inizio del gioco.
Nel Go funziona esattamente al contrario: la “scacchiera” (chiamata semplicemente tavola) è vuota, è più grande (19 linee per 19) e i giocatori iniziano mettendo le pietre (bianche per un giocatore, nere per l’altro) a ogni mossa successiva. Negli scacchi, ci dice Labatut, dopo le prime due mosse ci sono 400 combinazioni possibili; nel Go 130 000. Insomma: nel Go la forza computazionale bruta semplicemente non sarebbe possibile. Da qui nasce l’esigenza sia di usare l’intelligenza artificiale, sia di “addestrarla” in un certo modo.
Lee Se-dol vs AlphaGo
Fatto sta che – e questa è, come si diceva, cronaca – tra il 9 e il 15 marzo 2016 avviene a Seul la sfida tra Lee Se-dol e AlphaGo, dopo la quale Lee Se-dol diventa… l’ex campione mondiale. Qui la facciamo breve, ma Labatut ci comunica tutta la tensione e il pathos di questo incontro che ha visto perdere Lee Se-dol (a un tratto inevitabilmente rappresentante di tutta l’umanità) 4 partite su 5. La macchina rinforza il suo apprendimento giocando contro sé stessa. Il problema è che non si stanca. Mai. E per questo diventa imbattibile.
Ma, spenti i riflettori sulla partita, la ricerca sull’intelligenza artificiale si può dire solo appena iniziata. Vale la pena citare le parole con le quali Labatut chiude il libro. Perché nella mente di Hassabis risuonano ancora le parole di uno dei giocatori che aveva sfidato AlphaGo:
Quanto ancora potrà migliorare questo programma attraverso l’autoapprendimento? […] Hassabis e la squadra di DeepMind fecero una scelta radicale: sottrassero a Master, il successore di AlphaGo, qualunque conoscenza di origine umana – i milioni e milioni di partite su cui aveva imparato a giocare e che formavano la pietra angolare del suo buon senso, della sua eccezionale capacità di giudicare il valore di ogni singola posizione, di stimare le probabilità di vittoria, e di vedere la tavola come l’avrebbe vista un essere umano – e lo ridussero all’osso. Il loro obiettivo era creare un’intelligenza artificiale più potente e molto più generale, che non si limitasse al Go nelle sue capacità di apprendimento, e che non si aggrappasse alla comprensione e alla conoscenza umane per muovere i primi passi. Presero il loro algoritmo e lo ripulirono, non lasciandogli alcun dato umano da cui imparare, privandolo della sua unica connessione diretta con l’umanità. Il risultato fu terrificante. Il nuovo programma vinse cento partite su cento contro la versione di AlphaGo che aveva spinto Lee Sedol a ritirarsi. E quello fu solo l’inizio. Quando applicarono lo stesso algoritmo agli scacchi, si dimostrò altrettanto forte: dopo due ore aveva giocato più partite contro sé stesso di quante ne siano state registrate nel corso della storia; dopo quattro ore era già diventato più bravo di qualunque essere umano; dopo otto era in grado di sconfiggere Stockfish, l’IA che deteneva il titolo di campione del mondo di scacchi per computer. […] Dopo aver conquistato gli scacchi, il sistema si dedicò allo shōgi, un gioco giapponese in qualche modo analogo ma molto più complesso, perché i pezzi non sono fissi e possono essere scambiati fra uno schieramento e l’altro, creando scenari molteplici che negli scacchi non si potrebbero mai verificare; il nuovo algoritmo imparò a padroneggiare lo shōgi in meno di dodici ore, e sconfisse il programma più forte del mondo – Elmo – nel 90% delle partite. Per tutti questi giochi, l’algoritmo non aveva preso in alcuna considerazione l’esperienza umana: gli erano state fornite solo le regole, e aveva giocato contro sé stesso. All’inizio faceva mosse completamente casuali, ma in pochissimo tempo si trasformava in una forza imbattibile. È diventata l’entità più forte che il mondo abbia mai conosciuto a Go, scacchi e shōgi. Il suo nome è AlphaZero (Maniac, pp. 356-357).
Insomma: benvenuti (?) nel futuro. Anzi, no: nel presente.
Credit immagine: Wikimedia.