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02 Mar 2020

Coronavirus: imparare come si comunica il rischio

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Lo sforzo, ora, è cercare di riportare l’emergenza coronavirus nel suo giusto alveo. Che è, appunto, di emergenza sanitaria, perché questo nuovo agente patogeno

Lo sforzo, ora, è cercare di riportare l’emergenza coronavirus nel suo giusto alveo. Che è, appunto, di emergenza sanitaria, perché questo nuovo agente patogeno si diffonde con straordinaria facilità. Ma non è una delle sette piaghe d’Egitto né, tantomeno, il SARS-CoV2 (così l’Organizzazione Mondiale di Sanità ha battezzato il nuovo coronavirus) è l’angelo sterminatore. Al contrario, la gran parte delle persone contagiate o non presenta sintomi o ne presenta di molto lievi. Solo una percentuale esigua (intorno al 5%) va incontro a una polmonite grave e solo il 2 o 3% dei contagiati muore.

 

In genere, il virus è una concausa dei decessi, che interessa solo persone già gravemente malate e in età relativamente avanzata.

Certo, quei “solo” sono inaccettabili. Non è possibile mai sottovalutare il dolore di una malattia grave e l’irreparabilità di una morte. Di ogni morte, per qualsiasi causa e a ogni età. Dunque il “solo” ha una valenza statistica, non umana.  

 

È in questo senso – e unicamente in questo senso – che diciamo che, nel momento in cui scriviamo, il coronavirus ha ucciso in Italia meno di 30 persone e in tutto il mondo meno di 3.000. A puro titolo di paragone, la normale influenza stagionale ogni anno uccide in Italia tra 5.000 e 10.000 persone e nel mondo intero oltre 600.000 persone. Anche lei uccide soprattutto persone già fortemente debilitate e in età anziana. Ma ormai la consideriamo e la definiamo, l’influenza stagionale, “normale” e non ci spaventiamo. Perché è qualcosa di noto e insieme di contrastabile (abbiamo i vaccini).

 

In altri termini pensiamo di saperla governare, nonostante uccida tanto.

 

Invece, non conosciamo bene né il virus SARS-CoV2 né la malattia che scatena, chiamata Covid-19. Non abbiamo il vaccino. Anche se i medici in Cina come in Italia e in altri paesi la sanno contrastare abbastanza bene, perché anche i contagiati ospedalizzati per la gran parte guariscono.

 

Questa obiettiva constatazione basta a spiegare la paura che, essa sì, ci ha contagiato tutti o forse non c’è stato anche un difetto di comunicazione che ha alimentato la nostra percezione del rischio?
La domanda è retorica.

 

C’è stato un evidente difetto di comunicazione sia delle autorità politiche (nazionali, regionali e locali) sia della comunità scientifica di settore. Il maggiore errore è stata la divisione. Molti, troppi, hanno parlato a ruota libera e spesso agito senza un minimo di coordinazione, chi paventando il rischio dell’angelo sterminatore chi paragonando la Covid-19 a un normale raffreddore. Facendo tutti strame della complessità di questa emergenza sanitaria.

 

Ma, non c’è bisogno di dirlo, una responsabilità in quota parte ce l’ha anche il sistema dei media. Con mille differenze e sfumature, naturalmente. Ma nel complesso ha prevalso una bulimia mediatica con pagine e pagine sui giornali, schermate e schermate su internet, ore e ore di trasmissione che hanno creato un rumore di fondo insopportabile e hanno alimentato la psicosi collettiva.

 

È evidente che qui in Italia dobbiamo imparare tutti – politici, scienziati, operatori dei media e anche opinione pubblica – come si comunica il rischio in una situazione di emergenza.

Pietro Greco
Laureato in chimica, è giornalista scientifico e scrittore di opere scientifiche divulgative. Ha diretto master in Comunicazione scientifica della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, dove è anche project leader del gruppo di ricerca ICS (Innovazioni nella comunicazione della scienza).
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