Due centrali a carbone, una centrale ad olio combustibile, un petrolchimico, un porto a servizio dell’industria e del turismo, la pressione ambientale a Brindisi e comuni limitrofi comincia negli anni ’60 del secolo scorso. Nel corso degli anni una delle 3 centrali ha modificato il suo combustibile, un’altra è stata spenta, le emissioni industriali sono diminuite, la discarica di rifiuti del petrolchimico è da bonificare. Con la legge del 1986 Brindisi è designata area a rischio ambientale, dal 1997 è tra i 57 Siti di Interesse Nazionale per la bonifica.
Due centrali a carbone, una centrale ad olio combustibile, un petrolchimico, un porto a servizio dell’industria e del turismo, la pressione ambientale a Brindisi e comuni limitrofi comincia negli anni ’60 del secolo scorso. Nel corso degli anni una delle 3 centrali ha modificato il suo combustibile, un’altra è stata spenta, le emissioni industriali sono diminuite, la discarica di rifiuti del petrolchimico è da bonificare. Con la legge del 1986 Brindisi è designata area a rischio ambientale, dal 1997 è tra i 57 Siti di Interesse Nazionale per la bonifica.
Sono stati necessari 5 decenni, 10000 firme di cittadini e cittadine, decine di interventi di associazioni ambientaliste e di salute pubblica, relazioni tecniche, gruppi di lavoro, articoli scientifici, affinché finalmente Brindisi potesse entrare in una complessa indagine epidemiologia e la Regione Puglia “certificasse” con uno studio pubblicato in questi giorni i danni sulla salute che tale pressione ambientale ha esercitato sul territorio.
Aumento del rischio mortalità
Su una popolazione di 223.934 abitanti seguita nell’intervallo temporale 2000-2013, per la quale è stata ricostruita un’esposizione alle emissioni degli impianti industriali relative al periodo 1991-2014, viene registrato incremento di rischio della mortalità e ricoveri per tumori maligni, leucemie, malattie cardiovascolari e dell’apparato respiratorio, malformazioni tra le persone più esposte rispetto a quelle meno esposte alle emissioni di origine industriale.
Un risultato che non sorprende, soprattutto gli autori di diverse ricerche scientifiche pubblicate negli anni passati che avevano già messo in evidenza incrementi di rischio sulla mortalità, sulla morbilità, sulle malformazioni. Ricerche sminuite e osteggiate, a volte definite impeccabili ma militanti, spesso tacciate di essere allarmistiche o fuorvianti. Ma si sa, la ricerca scientifica nel contesto ambiente e salute ha delle dinamiche complesse e conflittuali. La storia dell’amianto, del tabacco, del piombo, dei raggi X in gravidanza etc.., ce lo hanno insegnato. Gli interessi in gioco in questi ambiti sono elevati, il ricatto lavoro/ambiente/salute sempre presente, i valori in campo differenti, l’incertezza dei sistemi in studio alta. Adesso un punto cruciale sarà decidere se il rischio ancora presente è solo un’eredità del passato o se anche le concentrazioni di inquinanti ridotte continuano ad essere di per sé un pericolo per la salute.
Il ruolo degli studi epidemiologici
Verranno invocati nuovi studi? E che ruolo possono avere gli studi epidemiologici su popolazioni di piccole dimensioni e sottoposte a più fattori di rischio? Anche fra gli epidemiologi la discussione è aperta. Studi epidemiologici complessi, come quello di Brindisi, richiedono tempo e risorse (oltre a volontà politica) e spesso possono essere richiesti e utilizzati per rimandare provvedimenti (riduzione dell’inquinamento, bonifiche) che sarebbero dovuti quando è evidente la presenza del pericolo. Savitz, epidemiologo di fama mondiale, in un editoriale sulla rivista Epidemiology, illustrando alcuni casi pratici ha mostrato come lo studio epidemiologico spesso possa aumentare, anziché diminuire, le incertezze. Paradosso ripreso anche qui in Italia tra gli altri da Gianicolo, durante un audizione presso il Senato, che si interroga su quale sia il rischio sanitario accettabile per una comunità, e da Magnani su Epidemiologia e Prevenzione che pone il problema se in caso di inquinamento ambientale l’indagine epidemiologica sia sempre utile, anche quando l’esposizione e le sue conseguenze sono ben note. Savitz segnala una soluzione, una forma di ricerca che può essere di grande valore in queste circostanze: la valutazione dell’impatto sanitario. Conoscendo di quanto una sorgente incrementa un livello base di inquinamento, si può stimare l’impatto sulla salute di quella sorgente utilizzando quanto già noto in letteratura sulla capacità di produrre malattia da parte di quel determinato incremento di inquinamento.
È quanto avevamo realizzato due anni fa con uno studio che valutava l’impatto integrato ambientale/sanitario della centrale elettrica a carbone di Brindisi. Sarebbe stato naturale un intervento conseguente da parte delle amministrazioni, che avrebbero ben potuto richiedere l’applicazione di restrizioni e riduzioni delle emissioni in sede di rinnovo della Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA). Vedremo se la pubblicazione dello studio epidemiologico di questi giorni, che raccomanda anch’esso l’applicazione di tutte le riduzioni possibili, produrrà un effetto concreto.
Cristina Mangia e Marco Cervino