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10 Mar 2017

La scienza ha sconfitto il dolore

Assuntina Morresi

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Le cure palliative e le terapie antalgiche consentono ormai di controllare la sofferenza, sia fisica che psicologica, anche nelle forme più pesanti, quando si avvicina la morte: il Comitato Nazionale per la Bioetica ha approvato un anno fa il parere “Sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte”, dove si spiega come questa sedazione, offerta al paziente in presenza di criteri ben precisi di appropriatezza clinica, sia in grado di eliminare quei sintomi “refrattari”, che non si riescono a controllare altrimenti.

Le cure palliative e le terapie antalgiche consentono ormai di controllare la sofferenza, sia fisica che psicologica, anche nelle forme più pesanti, quando si avvicina la morte: il Comitato Nazionale per la Bioetica ha approvato un anno fa il parere “Sedazione palliativa profonda continua nell’imminenza della morte”, dove si spiega come questa sedazione, offerta al paziente in presenza di criteri ben precisi di appropriatezza clinica, sia in grado di eliminare quei sintomi “refrattari”, che non si riescono a controllare altrimenti.

In altre parole, a una persona vicina alla fine, a seguito di una malattia incurabile in stato avanzato, con farmaci opportunamente dosati è possibile diminuire, fino ad annullare, lo stato di coscienza, in modo da eliminare sintomi non altrimenti controllabili né tollerabili – dalla dispnea al vomito al distress psicologico o esistenziale.

 

I trattamenti palliativi

I trattamenti palliativi si stanno diffondendo sempre più nel mondo, specie nei paesi sviluppati dove i servizi sanitari sono più consolidati. In Italia abbiamo un’ottima legge su cure palliative e terapia del dolore, la n. 38 del 2010; la rete degli hospice, che già vede molte eccellenze, sta crescendo, nonostante pesino ancora certe disomogeneità territoriali.
La domanda di eutanasia, quindi, tradizionalmente intesa come richiesta di essere uccisi a fronte di sofferenze insopportabili, non dovrebbe avere più ragion d’essere. Al contrario, stiamo assistendo come mai prima a un crescendo di norme e pronunciamenti sul fine vita: da singoli casi giudiziari, spesso lanciati da sapienti campagne mediatiche, all’approvazione di leggi organiche sul tema, e sempre più paesi ne sono coinvolti.

 

La “buona morte”

Testamento biologico, eutanasia, suicidio assistito, interruzione delle cure: sono queste le espressioni più ricorrenti del dibattito che ruota tutto intorno all’idea di una “buona morte”, intesa però nella nuova prospettiva del “diritto a morire”: così nel giugno del 2015 titolava l’Economist una sua copertina, in cui campeggiava una candela fumigante. Un diritto pari a quello di scegliere con chi sposarsi, o se abortire, veniva spiegato nel lungo servizio a sostegno del suicidio assistito.

 

E’ bene quindi chiarire che è questo il cuore del dibattito, adesso. La “dignità del morire” equivale a poter decidere quando e come farlo, specie se ci si trova in condizioni in cui la vita è diventata insopportabile: e poiché la sofferenza si può controllare, a essere in discussione è la qualità della vita, cioè se valga la pena vivere nelle condizioni in cui ci si trova. Perché continuare a vivere, se pienamente coscienti ma inchiodati a un letto, senza nessuna speranza di ritorno alla vita consueta (come dj Fabo, per esempio)? Si può considerare vita quella di una persona in stato vegetativo, con cui nessuno riesce più a entrare in contatto? Che senso ha vivere mesi di inconsapevolezza crescente, fino a perdere totalmente senso di sé, trasformati dall’Alzheimer in una persona diversa da quella che tutti hanno conosciuto, un estraneo anche ai propri cari?

 

Il “diritto a morire”

A questi interrogativi si vorrebbe rispondere con il “diritto a morire”: lasciate, a chi vuole, la libertà di farla finita. Chi invece vorrà continuare a vivere, lo potrà fare.
Ma la questione non è così semplice. Quando il desiderio di morire diventa un diritto esigibile, non può restare una scelta individuale, senza conseguenze. Innanzitutto, se la morte diventa un diritto ci sarà qualcuno con il dovere di porlo in atto, uccidendo o aiutando a suicidarsi. E se il criterio per accedervi è una condizione vissuta come intollerabile, questa non potrà che essere soggettiva: la morte di un figlio, la perdita del lavoro, il compagno di una vita che ti abbandona. O anche motivi inconfessabili. Chi altri potrebbe giudicare? E se quel che conta è la volontà personale, sarà reato impedire un suicidio? Guarderemo inerti chi si butta da un ponte? O questo non succederà, perché ci si potrà suicidare al chiuso di apposite cliniche, per mano di esperti?
Sono queste le vere domande che ci pone il “diritto a morire”.

Assuntina Morresi
Assuntina Morresi
Assuntina Morresi è Prof. Associato di Chimica Fisica all’Università degli Studi di Perugia, dove è Presidente del Corso di Studi Magistrale in Biotecnologie Molecolari e Industriali. Dal 2006 è componente del Comitato Nazionale per la Bioetica; nel 2013 Giorgio Napolitano le ha conferito l’onorificenza di Commendatore dell’Ordine “Al merito della Repubblica Italiana”.
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