Era il primo settembre del 1914 e, nella sua gabbia dello zoo di Cincinnati, moriva Martha, l’ultimo esemplare conosciuto di colomba migratrice. Con lei scompariva per sempre quella che era stata una delle più diffuse specie di uccello che avesse mai solcato i cieli del nord America: alcune colonie coprivano areali di decine di chilometri quadrati e si diceva che la loro popolazione complessiva superasse i cinque miliardi di esemplari. Fino alla metà del XIX secolo questi volatili erano talmente numerosi che bastava un colpo di fucile rivolto verso uno stormo in volo per ucciderne a decine. Eppure, dopo pochi decenni di caccia intensiva e una progressiva cancellazione del loro habitat naturale, le colombe migratrici furono perse per sempre.
Era il primo settembre del 1914 e, nella sua gabbia dello zoo di Cincinnati, moriva Martha, l’ultimo esemplare conosciuto di colomba migratrice. Con lei scompariva per sempre quella che era stata una delle più diffuse specie di uccello che avesse mai solcato i cieli del nord America: alcune colonie coprivano areali di decine di chilometri quadrati e si diceva che la loro popolazione complessiva superasse i cinque miliardi di esemplari. Fino alla metà del XIX secolo questi volatili erano talmente numerosi che bastava un colpo di fucile rivolto verso uno stormo in volo per ucciderne a decine. Eppure, dopo pochi decenni di caccia intensiva e una progressiva cancellazione del loro habitat naturale, le colombe migratrici furono perse per sempre.
Di specie carismatiche estintesi per mano dell’uomo ce ne sono di ben più note. Vengono in mente il dodo, la ritina di Steller, l’uro o il tilacino. Perché allora concentrarsi proprio sull’umile colomba migratrice? Perché le vicende di questo animale riassumono perfettamente quello che sta accadendo nel mondo naturale in questo preciso momento storico. Oltre alle estinzioni, infatti, gli effetti delle attività umane si possono osservare anche su quelle specie che ancora sopravvivono: secondo uno studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Science da un team di scienziati capitanato dal messicano Gerardo Ceballos, le popolazioni di buona parte delle specie di vertebrati esistenti stanno subendo un calo drammatico. Il declino è talmente significativo da poter essere accostato alle cinque grandi estinzioni di massa che hanno colpito il pianeta nel corso della sua storia. La differenza sostanziale è che in questo caso la causa principale è l’operato di un’unica specie, l’uomo.
La colomba migratrice è l’esempio perfetto perché riassume i passaggi fondamentali che stanno portando a questa ecatombe: non solo estinzioni, ma anche un sensibile calo nei numeri di tutte le specie, persino di quelle che erano così tanto diffuse da non poter sembrare a rischio. Le cause sono la predazione diretta (caccia e pesca), ma soprattutto fattori indiretti come la scomparsa degli habitat naturali, cancellati per far spazio a coltivazioni o aree urbane, l’inquinamento e i cambiamenti climatici antropogenici. Di questo dramma ha parlato diffusamente la giornalista scientifica Elizabeth Kolbert nel suo splendido libro “La sesta estinzione” del 2014, premiato col Pulitzer. La narrazione della giornalista del New Yorker è meticolosa, esaustiva, spietata. Riassume bene la grandezza del problema e l’incredibile impatto che l’uomo sta avendo sul mondo naturale, ad ogni livello. Tra acidificazione degli oceani e riscaldamento globale, scomparsa degli habitat naturali e inquinamento, nessuna specie animale o vegetale sembra realmente al sicuro.
L’uomo è una specie complessa, abile, potente. Ma è anche consapevole, e di conseguenza in grado di comprendere l’effetto delle sue stesse azioni sull’ambiente e sulle altre forme di vita. Oggi più che mai questa consapevolezza deve essere di tutti, per poter invertire questo processo e garantire un futuro alle specie con cui condividiamo il nostro pianeta e, di conseguenza, anche a noi stessi.
Image credits: Smithsonian Institution Archives, Record Unit 7410, Box 1, Folder 4