La prima cosa che mi è venuta in mente quando ho chiuso il breve ma intenso libricino di Chiara Valerio La matematica è politica è la frase, piuttosto celebre, del giovane Holden Caulfield. Avete presente, no? Quella che dice: «Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira». Ecco, con questo libro è stato un po’ così (e infatti in quel che segue l’autrice è chiamata solo per nome). Ma andiamo con ordine.
Una riflessione su “La matematica è politica”
Nelle prime pagine intanto si chiarisce il senso del titolo del libro: chi vi si avvicina infatti si chiede, un po’ alla Carlo Verdone, “in che senso, scusi” la matematica è politica? Allora quasi subito (pagina 10) c’è un brano che lo spiega in poche brevi battute, perché uno degli apprezzabilissimi aspetti di alcuni matematici sta nella loro asciuttezza verbale e nella conseguente concentrazione delle cose che in poche frasi vengono espresse: «La matematica è stato il mio apprendistato alla rivoluzione, dove per rivoluzione intendo l’impossibilità di aderire a qualsiasi sistema logico, normativo, culturale e sentimentale in cui esista la verità assoluta, il capo, l’autorità imposta e indiscutibile. Accettare questa definizione di rivoluzione significa ammettere che la rivoluzione non è un evento, ma un processo […]. Accettare questa idea di rivoluzione vuol dire ripensare la democrazia come forma di rivoluzione da esercitare».
L’aggettivo che mi viene in mente dopo aver letto questo brano è: “balsamico”. Tornare a respirare aria pura all’aperto, dopo essersi persi nei labirinti delle ragioni e controragioni, delle tendenze e controtendenze, di una politica-show quasi sempre subita e quasi mai agita. Da questa affermazioni discende poi una serie di corollari che contraddicono il senso comune su questa disciplina. Chiara infatti scrive, poco oltre: «La matematica, nel comune sentire, non è tra le necessità o tra le qualità di una persona di cultura, di un intellettuale». Vero, soprattutto in un Paese come il nostro, in cui le due culture (scientifica e umanistica) sono state spesso contrapposte e dove, come ancora si cita nel libro, la riforma della scuola la firma Gentile e non Enriques, relegando le discipline scientifiche a un ruolo quanto meno ancillare.
Financo Wittgenstein, per sancire la distanza tra una certa forma di scienza e l’umanesimo, arriva a sentenziare (perché il primo Wittgenstein, quello del Tractatus, non dice, sentenzia): «Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto una risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati» (Tractatus logico-philosophicus, proposizione 6.52).
L’importanza di capire i “perché”
Qui Chiara Valerio va in direzione ostinata e contraria, svelandoci la chiave epistemologica (lei lo dice meglio, parlando di ginnastica posturale) che lo studio della matematica le ha donato per avere accesso al mondo, o meglio: a una sua (condivisibile) interpretazione. Una sorta di militanza verrebbe da dire. Solo chi non ha studiato matematica a livelli superiori (universitari, magari in facoltà scientifiche) è convinto che la matematica sia una disciplina arida.
Chiara cita Euclide e quel quinto postulato dei suoi Elementi, la cui interpretazione eterodossa rispetto alla nostra esperienza dischiude un caleidoscopio di mondi possibili in cui i cerchi in realtà sono dei quadrati o hanno altre forme e dove le cose sembrano così diverse da come le conosciamo eppure continuano ad avere la loro coerenza (e bellezza). Questo mi è rimasto del mio esame di Analisi I a Ingegneria, sostenuto eoni fa. Un esame aridissimo, il cui libro di testo – di fatto una dispensa voluminosa redatta dal professore che spiegava in classe scrivendo sulla lavagna a molte ante con la mano destra e cancellando con la sinistra – somigliava moltissimo a un codice di legge: di fatto una lunga sequenza di enunciati, teoremi, lemmi e corollari. «Non è la matematica a scoraggiare […] – scrive ancora Chiara Valerio – ma il modo in cui essa è scritta e presentata» (p. 4) e, al netto del sadismo cui si era soggetti al biennio di Ingegneria negli anni ’90 in una città come Pisa (che di tradizione scientifica invece ne ha sempre avuta da esportare), questa è un’altra grande verità che ho sempre un po’ intuito, ma mai razionalizzato fino in fondo. Nel caso specifico di Ingegneria non c’era (ovviamente) spazio per una “storia” (ancorché minima) volta a contestualizzare i perché (perché nasce il calcolo differenziale? Perché le “interpretazioni eterodosse” del quinto postulato di Euclide sono così importanti? Ecc.): mica siamo a fare storia della matematica o della scienza! All’ingegnere servono solo strumenti, e così nasce il disamoramento, perché i vent’anni (ma anche dopo…) sono un’età “emotiva” e se non mi emoziono e non mi incuriosisco e non capisco perché le cose stanno in un certo modo, allora poi mi allontano e faccio male e lascio perdere e fallisco. Ma l’obiettivo dichiarato dal gesto terribile di cancellare la lavagna con la sinistra dopo averla scritta con la destra, ai tempi, era quello: fare selezione. E io mi sono guardato allo specchio e mi sono detto, “ma nella vita voglio fare questa roba qua?”, forse anche no. E così fallii. E solo dopo anni ho capito che non era solo colpa mia e questo libricino, che torna a battere su quei tasti, riaccende questa (e altre) riflessioni.
La comunità, l’avventura della conoscenza, la Natura
Chiudo con altre tre questioni che, ancora, vengono toccate nel libro. La prima è esplicitata qua e là all’interno del libro: non esiste sistema se non esiste comunità. Le regole (che possono cambiare) di cui si parla sono sempre riferite a un contesto sociale che fa da riferimento (una comunità, scrive Chiara, che “sta sopra” a tutte queste regole condivise).
Un pensiero simile – che portato alle sue “estreme conseguenze” diventa, ancora una volta, una specie di chiave epistemologica di quella disciplina esotica che si chiama meccanica quantistica – si affaccia in uno dei libri (Helgoland) dello scienziato italiano Carlo Rovelli. Rovelli è infatti tra i principali promotori della RQM, relational quantum mechanics, una interpretazione che in sostanza ci dice che il mondo è sostanzialmente vuoto e tutto ciò che di esso riusciamo a scorgere a livello subatomico è frutto di interazioni. Se non c’è interazione non c’è nulla. Estremo – ma cosa non lo è in meccanica quantistica? – ma bello, no?
La seconda riguarda la scarsa volontà di avventura («Capire è avventuroso», p. 51) che ho visto nella mia e in altre generazioni dopo la mia. Questa non vuole essere una generalizzazione, ma l’osservazione di una tendenza. I programmi delle scuole di ogni ordine e grado (fino all’università) si sono semplificati, ad usum Delphini: troppa roba, troppo complicato, troppa fatica. Ma se questa fatica per cercare di capire non la fai a vent’anni, quando la fai? Ci si deve provare con cose più grandi di noi, “durando fatica”, come si dice in Toscana. Solo in quel modo ci si mette alla prova (magari fallendo). Ma se nemmeno provi e scegli subito il sentiero in piano, poi vedi solo quello che il sentiero in piano ti permette di vedere. È quello che un fraterno amico chiama “zappare nel molle”. E, ancora una volta, Chiara lo scrive: «La matematica, più di altre, è una disciplina nella quale, al netto delle doti naturali […], applicazione ed esercizio sono fondamentali. Non è vero intatti che per studiare matematica “bisogna essere portati”». Per studiare matematica, come per il resto e più del resto, bisogna solo studiare.
Mi rendo conto che studiare, nella dittatura dell’immediato in cui viviamo, è un «verbo scomodo, pieno di conseguenze e al quale è stata sottratta la sinonimia, naturale, con progettare e immaginare» (p. 28). Ecco, viviamo in un presente che (tendenzialmente) manca di progettualità e di futuro.
La terza e ultima questione – ah, ma quante altre ce ne sarebbero! – riguarda la spinoziana idea del Deus sive Natura. La Natura è manifestazione del divino o, se preferite, Dio si manifesta attraverso di essa. Da questo discende che gli scienziati (o, come a lungo si sono chiamati, prima dell’avvento dell’era moderna, i “filosofi naturali”) che studiano le scienze e osservano la Natura –ricordiamo che la parola “fisica” deriva da physis che è la realtà prima e fondamentale, principio e causa di tutte le cose, secondo i filosofi presocratici ed è il termine che viene tradotto con “natura” – sono di fatto i “sacerdoti laici” dello studio del divino. Una cosa molto chiara a chi abbia approfondito figure come quella di Galileo – e io l’ho fatto ed è stato il mio antidepressivo naturale nei primi mesi del 2008, sfociato poi in questo saggio – o il gesuita Georges Lemaître.
Un pensiero che arriva dopo aver letto le conseguenze della cecità (durata a lungo) alle “interpretazioni eterodosse” del quinto postulato euclideo, che Chiara attribuisce a motivi squisitamente umani e alla fin fine teologici. Insomma: ci si è affezionati alle rette parallele per come le conosciamo nel nostro mondo, dice Chiara, non solo perché queste fanno parte della nostra esperienza e vanno d’accordo con gli apriori kantiani di spazio e tempo, ma anche perché banalmente se l’uomo è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio (per tacere di Nietzsche che direbbe il contrario) questo ci garantisce che quel Dio sarà più o meno fatto come noi. Ma se così non fosse, allora: «In una prospettiva spirituale, il fatto che altre geometrie siano possibili e coerenti ci fa sperare che Dio possa avere la forma di una pianta ed essere già qui a contribuire alla nostra sussistenza e salvezza. Il suo profeta, se così fosse, sarebbe il neurobiologo vegetale Stefano Mancuso» (p. 25).
E con questa bella immagine di Mancuso profeta vi saluto.