La parola che ho sentito pronunciare più spesso negli ultimi giorni, tra i corridoi virtuali del MIUR, è scenario. Che a pensarci bene sarebbe più consono echeggiasse per il MiBACT, dietro le quinte di un teatro.
È una parola che viene dal greco, la skené è il luogo ove si dimora al coperto, uno spazio ben definito, una raffigurazione d’ambiente. Qualcosa di compiutamente dipinto, non un’ipotesi. Di realizzato, non di realizzabile.
Sentirla rimbalzare così, tra banchi e cattedre deserte, rende bene l’idea dello spazio vuoto, dell’assenza: poiché su questi scenari c’è il sipario abbassato, e barcolliamo nel buio come capita a me in questo momento, che scrivo favorita dall’illuminazione dello schermo del PC mentre mia figlia sperimenta eclissi e fasi lunari qui, in salone.
L’esperimento di scienze le è stato assegnato a distanza, come tutta la didattica di questo periodo: è un’attività divertente e sicuramente istruttiva, è sufficiente una torcia e due palline a rappresentare la Terra e la Luna. Lei tuttavia non mi sembra entusiasta.
Le manca la condivisione, le mancano gli “oooohh” dei compagni di classe quando si abbassano le tapparelle, tra una risatina e l’altra, una tirata di manica, una fuga in bagno, e il “Bambini state buoni” della maestra.
Si sono scritti innumerevoli articoli in questi ultimi giorni sulla DAD (mai acronimo fu così sottilmente sornione) e probabilmente ripeterò molte riflessioni già espresse. Eppure è l’unico contributo che si può dare, per fare un po’ di luce: continuare a riflettere anche sulle parole che utilizziamo in questa emergenza inattesa, sorprendente e devastante.
Lavorare con i ragazzi è qualcosa di inevitabilmente fisico. Occorre uno spazio in cui posizionare corpi che non si limitano a parlare e ad ascoltare, ma gesticolano, utilizzano mimiche facciali, sorridono o corrugano le fronti, senza (spesso) seguire una scaletta, dilatando il tempo (incredibile quanto tempo possa nascondersi, zippato, in un’ora di lezione).
Ciò rende la didattica a distanza un ossimoro. Come posso mostrare e indicare da lontano?
Perché di fronte a un PC, ognuno a casa propria, in modalità DAD, si impiega anche il triplo del tempo a far capire metà di ciò che si vorrebbe trasmettere a una classe presente a gruppi intermittenti.
Perché viene meno una sana interazione che non è fatta solo di voci e volti a scatti, perché essa è animata dall’improvvisazione, da un motto di spirito, da una riflessione che spontaneamente sposta il focus dell’attenzione su tutt’altro e ci si possono permettere digressioni e voli pindarici.
Perché manca la creatività nella DAD: la libertà di non seguire rigide scalette, la non-medietá (un “medium” proprio non ci sta in un processo biunivoco di crescita). E si intenda la creatività come dare alla luce ogni volta qualcosa di nuovo, anche se si sta parlando per la miliardesima volta di Cartesio, Platone, della Rivoluzione Francese o della Prima Guerra Mondiale.
Ahinoi, la didattica a distanza, almeno così com’è, ora, non lo consente. È stata definita una opportunità, ma anche in questo caso andrei alla radice del termine: viviamo una circostanza che ha richiesto un intervento immediato (non posso negare l’importanza di mantenere il contatto con i miei alunni in questo momento, sebbene in questa modalità parziale), ma si tratta sempre e comunque di un passaggio (comodo come il porto per i naviganti) e non del viaggio in sé. È favorevole a uno scopo, ma è proprio sullo scopo che dobbiamo tornare a meditare.
The Walking Dad, è l’ironica espressione serial addicted coniata da una amica-collega. Per adesso siamo in cammino verso (rieccoci!) scenari sconosciuti e inediti: ma ci auguriamo di non essere accompagnati da una forma di didattica zombie, morta in partenza.
Che perlomeno sia rianimata: occorre una scossa violenta, in termini di adeguamento strutturale in scala nazionale, secondo strategie pianificate e coordinate, di appropriata formazione e, forse questo è l’aspetto più importante, di un ripensamento strutturale della scuola. Che non può più consentire classi da 30 alunni, e non solo per una cautela da rendere sistemica nel prossimo futuro ammantato di rischi pandemici ricorrenti. Numeri più snelli facilitano le relazioni, la responsabilizzazione, la flessibilità: elementi indispensabili per consentire forme altre di didattica.
Una scuola che ha bisogno di rivedere, urgentemente, i programmi delle discipline da impartire per ordine e grado. Di riscrivere, completamente, il capitolo “valutazioni”; di ripensare gli esami conclusivi di ciclo.
Questa è la reale opportunità: la sperimentazione frettolosa, nonché retta da una enorme buona volontà, ha subito evidenziato i limiti (ma con estrema modestia noi docenti ce ne eravamo accorti ben prima del virulento Covid-19) del nostro sistema dell’istruzione.
“La razza umana combatte le pestilenze fin dall’inizio.
Ci prendono a calci nel didietro per un po’, ma poi contrattacchiamo.
È la natura che corregge se stessa, ripristina il suo equilibrio.”
È il momento buono per correggersi e ripristinare un equilibrio. L’abbiamo perso negli ultimi vent’anni, non nell’ultimo mese.