Tra i libri che parlano del cambiamento climatico e di come, in quanto umani, dovremmo affrontarlo, uno dei più interessanti tra le pubblicazioni recenti è quello di Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi.
Si tratta di un libro non tecnico, ricco di aneddoti, intelligente, a tratti ironico e che soprattutto mi trova d’accordo nel pensare che la “soluzione” – ammesso che ve ne sia una sola mentre, data la complessità del tema, intuiamo che debba essere un mix di diverse cose – al “problema climatico” non sia né tecnica né scientifica, ma sociale, umana e, al più, economica, ricordando che l’economia è di fatto una scienza sociale.
Soluzioni al cambiamento climatico?
L’autore, in un interessante stream of consciousness tipico anche del suo libro precedente Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?, liquida senza troppi complimenti le fantascientifiche soluzioni promesse da tecniche quali la geoingegneria o il miraggio di colonizzare un altro pianeta, sicuramente più ostile del nostro (e perché mai, non essendo riusciti a prenderci adeguatamente cura del nostro, dovremmo essere capaci di farlo con un altro?).
La sua analisi parte da se stesso, arrivando a criticare il suo stile di vita e ricordando esplicitamente al lettore di essere un ebreo statunitense benestante, ben integrato, sicuramente in una certa misura di successo, aggiungiamo noi, se agevolmente leggiamo i suoi libri da questa parte dell’Oceano. Il rischio di essere retorici è molto elevato, ma Safran Foer ne è ben consapevole e non si sottrae al gioco.
Il problema però è che la sua analisi è un’arma spuntata per una serie di motivi che per semplicità analizzeremo in breve da due punti di vista: psicologia e sociologia.
Psicologia (o forse anche antropologia)
C’è un libro, quasi universalmente riconosciuto come una pietra miliare degli studi sulla complessità e sul futuro che ci aspetta: I limiti dello sviluppo, pubblicato nel 1972 e ripubblicato recentemente, nel 2018, come I limiti alla crescita.
Uno degli aspetti che mostra la lungimiranza di questo testo è che il grafico – il primo di una lunga serie – con cui il libro si apre, riguarda la condizione umana, l’umanità, la sua natura. Il messaggio sotto traccia è: tutte le simulazioni di come andrà il mondo, di cosa potrà accadere, di cosa saremo o non saremo in grado di fare per salvarci, dipendono da questo primo grafico che illustra, appunto, una natura umana dalla quale non possiamo prescindere.
È un grafico qualitativo, la cui lettura è semplice e si basa su un fatto tanto evidente quanto ignorato: la stragrande maggioranza delle persone stanno vicine all’origine degli assi e pensano – nel tempo – a domani, a fra una settimana, un mese, un anno.
Ma più ci si allontana nel tempo meno saranno coloro che penseranno in termini di orizzonte temporale più ampio. Lo stesso discorso vale per lo spazio: la maggioranza pensa a ciò che abbiamo vicino, alla propria casa, al proprio quartiere, alla propria città, alla propria regione e poi nazione. Ma più ci si allontana dall’origine degli assi più esiguo sarà il numero di persone che penseranno in questi termini. Questa è una constatazione: siamo fatti così.
Ci sono diverse spiegazioni per le quali, a partire da questo libro fondamentale, l’umanità è rimasta in una sostanziale inazione. Ci sono alcune interessanti Ted Talks di psicologi che, in maniera piuttosto convincente, ci raccontano i motivi per cui il cambiamento climatico non fa parte delle minacce che ci spingono ad agire. In breve, si racconta, il nostro cervello si è configurato filogeneticamente per rispondere a minacce di quattro tipi: intenzionali, immorali, imminenti e istantanee. Non è questa la sede per entrare nei dettagli di queste tipologie, anche perché sono facilmente intuibili e, soprattutto, è facile capire che il cambiamento climatico alla fine non rientra in nessuna di queste: non è intenzionale, o meglio lo è nella misura in cui è l’umanità ad averlo causato, ma il termine “umanità” è un soggetto vago e indistinto che si perde nello spazio (il mondo intero, con i dovuti distinguo) e nel tempo (qualcuno vorrebbe far pagare all’Inghilterra la parte maggiore del danno ambientale perché storicamente la Rivoluzione Industriale lì si è sviluppata e il Regno Unito è stato il principale emettitore di CO2 per diverse decadi…). Non è immorale, se non ex post. Soprattutto non è imminente – per la verità il danno l’abbiamo già fatto data l’inerzia del ciclo del carbonio che di norma rimane in atmosfera almeno un centinaio d’anni – né istantaneo, sebbene sia sempre più rapido.
Questi i motivi per cui gli aneddoti e gli esempi che Safran Foer cita nel suo libro alla fine sembrano essere poco calzanti. Parla di alcuni momenti cruciali delle guerre, della “super forza” che come esseri umani, presi singolarmente, siamo in grado di sviluppare in condizioni di pericolo (nostro o/e altrui), ma nulla di tutto questo assomiglia, come tipo di minaccia, al cambiamento climatico, proprio perché rientra piuttosto in almeno una delle quattro categorie che leggiamo come una minaccia: leva psicologica sufficiente a farci agire, sia come individui che come società, in un certo modo.
Sociologia
Safran Foer poi evidenzia alcuni aspetti sociali legati alle scelte individuali, necessari ma non sufficienti: consumare meno, usare meno l’auto – e magari convertire quella che abbiamo con un’auto elettrica – usare poco o anche nulla l’aereo, piantare alberi, installare pannelli fotovoltaici e tante altre buone pratiche che, alla fine, ben conosciamo. Tutte cose di per sé necessarie ma non sufficienti.
Soprattutto, ci dice l’autore, dovremmo smettere di mangiare carne. Lo scrive nel libro, a un certo punto, come dell’elefante presente nella stanza di cui nessuno parla, a partire da Al Gore in poi. Credo abbia ragione, visto che gli allevamenti intensivi sono in espansione e poco li si collega al riscaldamento globale. Ma… c’è un “ma”.
Infatti, sempre in una sorta di confessione in camera caritatis mirata a una complicità con il lettore – non sappiamo se sia un escamotage per vendere qualche copia in più del libro – ammette che ogni tanto lui la carne la mangia e non riesce a farne a meno. Vuole essere vegetariano per motivi etici – e se avete occasione di leggere Se niente importa, o se lo avete già letto sapete il perché – ma confessa di non riuscirci fino in fondo.
Allora la domanda sorge spontanea: se una persona come lui, sulla quarantina, con moglie e figli e che possiamo immaginare affermata e con una vita appagante, non riesce in quello che ritiene comunque uno sforzo, perché ci dovrebbero riuscire le “persone normali” che magari hanno una vita di relazione, professionale ecc. meno brillante e sicuramente più normale? Insomma, sembra che Safran Foer, in tutto questo suo flusso di coscienza, dimentichi di ricordare che il cibo, nel nostro mondo, è soprattutto consolazione. Nel nostro Paese è anche un’arte e una vera e propria cultura, ma siamo eccezionali anche in questo.
I limiti della nostra esperienza
Il fumo, come la cattiva alimentazione, uccidono lentamente, ma anche queste rientrano tra le pratiche a cui non sappiamo dare una risposta immediata perché non c’è intenzionalità, immoralità, imminenza o istantaneità, così come non ci sono nel non indossare la mascherina durante una pandemia che, pochi giorni fa, in Italia ha fatto toccare la ragguardevole cifra di 100 000 morti.
Molte delle cose scritte fin qui le conosciamo razionalmente, ma non “emotivamente” o per esperienza. Mangiamo al fast food perché in realtà non abbiamo mai messo davvero piede in un allevamento intensivo. Deroghiamo alla regola della mascherina o al frequente lavaggio delle mani perché la pandemia sembra riguardare sempre gli altri e quasi nessuno ha avuto esperienza di terapia intensiva con un casco per la respirazione otto ore al giorno e le restanti ore a fissare il soffitto interrogandosi se ci sarà un futuro oppure no.
È per questi (e molti altri) motivi che non sfuggiremo alla catastrofe climatica e non salveremo il mondo prima di cena. Anche perché come ho scritto altrove, riportando le parole di Dennis Meadows, principale redattore del rapporto su I limiti dello sviluppo, il mondo si salverà da solo ed è sopravvissuto a cose ben peggiori della nostra presenza.