Senza voler individuare nuove colpe o responsabilità, l’intento di questo articolo è proporre una visione di un fenomeno antico quanto l’essere uomo: quello della sopraffazione del più forte sul più debole. Perché, alla fine, tutto confluisce in un atto finale di ordine muscolare: quando le parole finiscono arrivano le mani, si dice.
Si invera in tal modo un acting out (ossia il passaggio all’atto), un corto circuito mentale con il quale le domande e le risposte non si incontrano più, anzi si confondono.
Il neo-encefalo (la neocorteccia) lascia il posto al paleo-encefalo con il suo sistema limbico, dove risiedono le reazioni più emotive primordiali: e la bestia viene fuori.
La donna vittima della visione della “femmina”
Fatto questo preambolo, e tornando al titolo e alla sua domanda, la risposta è nel sostantivo
stesso: il maschio uccide la femmina, ovvero la natura che le appartiene.
E che ne è della donna con la sua cultura?
Evidentemente muore anche lei, ma non è il vero bersaglio: è solo la seconda vittima, oserei
dire, che si trova lì, sconfitta suo malgrado; essa sì, anima innocente di quel corpo violato e sopraffatto. La cultura, che rimane gestalticamente sullo sfondo della tragica scena, è un demone che va gestito e maneggiato con cura: prima!
Un’ombra in continuo movimento, che problematicamente sollecita la femmina (non ancora in grado, probabilmente, di trasformarla in un abito da vestire a sua misura), la provoca, che può alterare le coordinate della relazione che vive, fino a farle perderne il (presunto) controllo.
Il corpo femminile è l’avanguardia disarmata di questa lotta temeraria, spavalda e incosciente,
coraggiosa, a tratti confusa e fumosa.
Invece è, o dovrebbe essere, la prima cosa da curare, scoprire e reinventare. Sì, proprio così. E la sfida risiede in questo! Essendo, quella femminile, una natura che non può essere solo messa nelle mani degli artigiani della bellezza, delle tendenze della moda, dei padroni dell’immagine (e dell’immaginario), la costruzione di un suo nuovo e più solido patto con la cultura non può passare soltanto attraverso una minigonna o libere scollature: è lì che si incontrano la femmina e la donna? Io credo che lì si separino!
Ennio Flaiano, noto per i suoi aforismi, ebbe a dire: «mai la donna con così poco, ha fatto così
tanto per l’uomo!». Io, però, rimarrei su quel “poco”. Poiché, signore e signorine care, non c’è ancora stato un incontro vero fra cultura e natura che vi riguardi veramente, nonostante le dure lotte femministe. Che su questo versante non hanno prodotti dei veri modelli alternativi che non fossero prevalentemente speculari a quelli maschili.
La parità non risiede nella possibilità di imitazione. Qualche femminista avveduta ha sostenuto: «prima di noi la madre uccideva la donna. Ora non vorremmo che fosse la donna a uccidere la madre!». In questa sintesi, al di là della sua veridicità, si coglie ancora la diatriba natura/cultura.
Il corpo femminile, la cultura, la relazione
Il corpo femminile dovrebbe dire altre cose, soprattutto alle donne: un diverso incontro fra natura e cultura, che vivono attualmente troppo distanti. E partendo dal fatto imprescindibile che di natura le donne ne sono colme totalmente – potenti attrattive per il maschio, fonte e gestazione di vita, nutrimento primario, ecc. – potrebbe apparire improbo, oltre che faticoso, il lavoro da compiere, la strada presentarsi irta di enormi difficoltà e spesso senza apparente sbocco. È come se dovesse applicare il multitasking con sé stessa (cosa che in parte già avviene).
Dato che il carico risulterebbe oltremodo gravoso, potrebbero imporsi delle scelte. E fare scelte il più delle volte comporta operare rinunce. Quali scelte? Bella domanda.
Ebbene, vorrei proporre quella decisamente a favore della relazione, piuttosto che del partner; di un mondo condivisibile, invece di quello fatto di doni, anche generosi, che poi non si incontrano mai in vero e proprio scambio. In definitiva, parlo di una visione del rapporto fondata sul come ci si sta, piuttosto che del come ci si sente!
Si tratta, cioè, di dare una precisa direzione – avveduta, meditata, congruente con le proprie forze – a una vita che può essere tanto ricca e soddisfacente, quanto povera e disperata. Intraprendere, insomma, un viaggio, che richiede riserva di risorse, attrezzi, forniture, ma soprattutto una oculata scelta dei compagni di percorso.
Il maschio predatore, prigioniero della “natura delle cose”
E qui veniamo al maschio (come si vede, non uso la parola “uomo”) che regredisce sempre più culturalmente, affidandosi a quello che gli rimane: la natura apparentemente più forte. Simmetricamente, ma anche in modo complementare, s’avanza la natura maschile, che non ha da fare i conti con la cultura, semplicemente perché già coincide con colui che se l’è costruita addosso. Egli non ritiene di controllare la sua natura di predatore poiché è nella “natura delle cose”, afferma con convinzione. Ma è un’affermazione debole, che lo riduce a posizione di difesa, di animale nell’angolo pronto ad aggredire.
I due personaggi di questa antica tragedia sono, o dovrebbero essere, destinati a conquiste diverse per diventare veramente convergenti, tutte a loro vantaggio. Per lei, fatta di scelte come quelle suggerite. Per lui, allontanarsi da una animalità che non gli deve decisamente appartenere. Egli è chiamato a un adattamento continuo a cambiamenti che egli stesso contribuisce a realizzare e nei quali può trovarsi prigioniero. E anche questo è un lavoraccio: credetemi!