Il 12 agosto 1883 il quagga, una sottospecie di zebra delle pianure dalle caratteristiche strisce bianche e nere presenti solo nella parte anteriore del corpo, veniva dichiarato estinto. Quel giorno moriva l’ultimo esemplare di questo bellissimo animale, una femmina in cattività presso uno zoo di Amsterdam. Quella del quagga era una storia di estinzione comune a molte altre specie ormai scomparse: caccia indiscriminata da parte dei coloni olandesi in Africa, perdita di habitat a causa della competizione con i bovini domestici, una eccessiva specializzazione e localizzazione che rendevano la specie molto vulnerabile. La vicenda del quagga, in definitiva, avrebbe potuto finire lì per diventare, più tardi, un breve paragrafo nei libri di storia naturale. Ma Svante Pääbo, colui che nel 2022 avrebbe vinto il premio Nobel per la medicina e la fisiologia, aveva in mente altre idee per questo animale estinto.
Il DNA delle mummie egizie
Unire gli studi di biologia a quelli di archeologia, indagando il passato non più solo tramite i reperti fossili o artistici, ma mediante gli strumenti della genomica, era forse scritto nel destino di Pääbo. Figlio illegittimo di un’archeologa e chimica estone, Karin Pääbo, e del premio Nobel per la medicina del 1982, lo svedese Sune Bergström, Svante fu attratto dalle nostre profondissime radici fin dagli studi universitari presso l’Università di Uppsala. Il suo primo oggetto di studio? Le mummie egizie.
Ai tempi del suo dottorato in medicina, nel 1981, e all’insaputa del suo supervisore accademico, Svante Pääbo riuscì infatti a ottenere da un museo tedesco alcuni frammenti di una mummia proveniente dall’antico Egitto. Lo scopo della sua ricerca era capire se fosse possibile estrarre da reperti biologici di migliaia di anni fa frammenti di DNA più o meno intatti. All’epoca, la convinzione del mondo scientifico era che ciò non fosse possibile, a causa della degradazione e frammentazione del DNA dopo la morte. L’articolo pubblicato da Pääbo che dimostrava, invece, come anche da mummie egizie fosse possibile ottenere ancora delle sequenze di DNA non passò inosservato, tanto da guadagnarsi la copertina della prestigiosa rivista Nature nel 1985.
A Berkeley, nell’Università della California, un altro studioso stava lavorando su quegli stessi argomenti. Il professor Allan Wilson era riuscito a isolare del DNA a partire proprio dal tessuto organico di quagga, la sottospecie di zebra estinta, proveniente da diversi reperti museali. Wilson scrisse una lettera invitando il giovane Svante a raggiungerlo negli Stati Uniti per unirsi a quelle ricerche e lavorare su uccelli e grandi mammiferi estinti come quagga, mammut e lupi marsupiali. Grazie ai successi di Svante Pääbo nella ricostruzione del DNA di quagga, una nuova disciplina scientifica stava vedendo la luce: la paleogenomica. E, grazie ad essa, lo studio delle origini dell’uomo ne sarebbe stato rivoluzionato.
Una nuova disciplina: la paleogenomica
Tornato in Europa nel 1990, all’Università di Monaco, il futuro premio Nobel decise di applicare le tecniche e le conoscenze sviluppate nel laboratorio di Wilson a reperti umani molto più antichi delle mummie egizie. Nel 1856, alcuni operai in una cava di calcare nei pressi di Feldhof, in Germania, avevano rinvenuto dei resti umani di difficile collocazione: erano chiaramente umani, ma con marcate differenze rispetto allo scheletro di Homo sapiens, tanto che si ipotizzò che appartenessero a un individuo con delle malformazioni. Successivi studi svolti da William King nel 1864, invece, attribuirono tali resti a una nuova specie o sottospecie umana, che prese il nome dal sito di ritrovamento: la valle di Neander.
Dall’osso del braccio di quel primo uomo di Neanderthal, Svante Pääbo riuscì a estrarre del DNA integro. Si trattava di DNA mitocondriale (mtDNA), sequenze di circa 16.500 coppie di basi contenute, appunto, nei mitocondri, organuli cellulari di esclusiva eredità materna. L’articolo pubblicato nel 1997 su Cell parlava chiaro: non vi era alcuna sovrapposizione e similitudine possibile tra quell’antico DNA neanderthaliano e quello appartenente a individui della nostra specie. Homo neanderthalensis e Homo sapiens erano dunque due specie diverse, che si erano divise a partire da un antenato comune oltre 500.000 anni fa e si pensava non si fossero mai più incontrate… Fino a prova contraria.
Il Neanderthal che è in noi
E anche in questo sta la bellezza della scienza, nella possibilità di cambiare idea nel momento in cui nuovi dati ed evidenze smentiscono ciò che davamo per assodato, in questo nostro infinito rincorrere la conoscenza. Nel frattempo, infatti, Pääbo era diventato direttore del Dipartimento di genetica del Max Plank Institute di Lipsia, passando dall’mtDNA al DNA nucleare, di circa 3 miliardi di coppie di basi. I risultati, qui, furono sorprendenti: tra l’1 e il 2% del DNA delle popolazioni caucasiche è condiviso con quello dei Neanderthal, a dimostrare ripetuti incroci tra le due specie risalenti a circa 70.000, in Medio Oriente, durante una delle ultime ondate di fuoriuscita dall’Africa da parte di Homo sapiens. Era il 2010, un anno fatale.
2010, l’anno del Denisova
Sempre nel 2010, infatti, Svante Pääbo e il suo team di ricerca al Max Plank Institute spingono avanti di un altro passo la paleogenomica, identificando per la prima volta una specie estinta non tramite l’analisi di reperti fossili, ma solo grazie allo studio del suo DNA antico. Due anni prima, in una grotta sui monti Altaj, in Siberia, nei pressi di Denisova, era stato ritrovato l’osso di una falange di un ominino risalente a circa 40.000 anni fa che, grazie ad analisi successive, fu attribuito a un individuo femmina molto giovane, una bambina. Pääbo riuscì a estrarre da questo frammento il DNA mitocondriale e confrontarlo con quello noto di Neanderthal e di “sapiens”: differiva da entrambi.
Paabo aveva tra le mani la prova genetica che, contemporaneamente alle altre due specie umane, almeno un’altra abitava la Terra 40.000 anni fa, una specie che fu poi ribattezzata “Denisova” dal sito di ritrovamento. Una specie con un antenato in comune con le altre due risalente a 1 milione di anni fa e capace di dare un contributo genetico alle popolazioni che ancora oggi abitano la Melanesia, in modo analogo a quanto fatto dai Neanderthal con gli europei.
Il Nobel a Svante Pääbo
Nel 2022 l’accademia svedese che assegna i Nobel ha attribuito il premio a Svante Pääbo «per le sue scoperte inerenti i genomi di ominini estinti e l’evoluzione umana». Un premio che è un riconoscimento all’uomo che ha fondato una disciplina, la paleogenomica, rivoluzionando la nostra conoscenza dell’albero della vita umano che, più che un albero, ha assunto le sembianze di un cespuglio. Un uomo, Pääbo, che grazie al suo lavoro ha permesso a tutti noi di conoscere meglio noi stessi, la nostra origine e questa meravigliosa avventura che è la vita. Una storia di cui solo ora abbiamo iniziato a leggere il primo capitolo.
Immagine di copertina: © The Nobel Committee for Physiology or Medicine. Illustrator: Mattias Karlén, https://www.nobelprize..org/prizes/medicine/2022/press-release/