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04 Nov 2022

La scoperta dell’America? In anticipo di migliaia di anni

Mattia Paparo

Mattia Paparo
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Se dovessero chiedervi “quando arrivò la nostra specie nel continente americano”, è probabile che una delle risposte più gettonate sarebbe “15 000 anni fa, grazie a una lingua di ghiaccio o di terre che connetteva l’isolato continente americano con quello asiatico”. Homo sapiens è una specie che ha colonizzato quasi tutti i continenti già nel passato e i ritrovamenti litici, paleogenomici e paleontologici ci permettono di dire come e quando arrivò in un dato luogo.
L’America è sempre stata un via vai di popolazioni diverse, a partire dai Vichinghi che raggiunsero Vinland (l’attuale Terranova) passando per Colombo, fino alle migrazioni di massa degli ultimi secoli. Ma, a livello paleontologico, sapevamo che Homo sapiens colonizzò il continente americano tardivamente rispetto all’Eurasia e all’Oceania, circa 10-15 000 anni fa, quando lo stretto di Bering tra Nord America e Russia, grazie all’avanzamento dei ghiacci polari, permise il passaggio di una miriade di specie dal continente asiatico a quello americano, uomo compreso.

 

I primi studi e reperti di presenza umana

Alcuni studi, a partire dal 2017, sostengono che Homo sapiens arrivò 20 000 anni prima del previsto, mentre altri ritrovamenti indicano che gli ominini giunsero già 100 000 anni fa nel continente americano. Infatti, nella grotta di Coxcatlan, nella valle di Tehuacan in Messico, sono stati trovati migliaia di reperti tra resti di cibo e di animali datati con il radiocarbonio che suggeriscono la presenza umana in quelle zone da almeno 33 000-28 000 anni prima del picco delle calotte glaciali che ha permesso il passaggio della nostra specie in America.

 

Il mistero delle tracce umane più antiche

I resti di ominini, invece, sono stati datati a 130 000 anni fa circa. La datazione radiometrica effettuata è stata più che affidabile e i dati raccolti sono coerenti tra di loro, quindi ci troviamo davanti a un enigma: chi ha lasciato quelle tracce?
I resti appartengono a un singolo individuo di mammut con ossa e molari fratturati a “spirale”, indicando che la rottura di questi reperti è avvenuta prima o appena dopo la morte dell’animale, quando la carne era ancora “fresca”. Oltre ai resti anatomici, sono stati trovati anche resti archeologici usurati che dimostrano una caccia attiva e di gruppo. Inoltre, questi presunti esseri umani erano dotati di grande manualità, in quanto lavoravano le ossa delle loro prede.
Una manualità del genere è associata al genere Homo, anche se al momento non si sa chi abbia lasciato queste tracce. Soprattutto, bisogna tenere conto che Homo sapiens, 130 000 anni fa, compiva le sue prime “scampagnate” fuori dall’Africa, mentre i Neanderthal a quel tempo erano distribuiti tra Europa e Asia. Gli autori di questo studio ipotizzano possa trattarsi di un altro ominino appartenente al nostro lignaggio, come Homo erectus, soprattutto per via della datazione. A quel tempo questa specie era molto diffusa in Asia, dove colonizzò anche il Sud-est asiatico, e quindi non è così improbabile un suo arrivo in America. Potrebbe anche trattarsi di una specie sconosciuta, ma al momento si possono fare solo supposizioni.

 

 

 

Le impronte umane fossili

Dopo i due studi appena citati, il rinvenimento di impronte fossili (icnofossili) ha cominciato a gettare basi ancora più solide per quanto riguarda l’arrivo “anticipato” della nostra specie. Le impronte sono state rinvenute nel White Sands National Park (Nuovo Messico, Stati Uniti), datate tra i 23 e 21 000 anni fa. Questi risultati avvalorano la presenza di umani in Nord America durante l’ultimo massimo glaciale, cioè tra 26,5 e 20 000 anni fa circa, e confermano anche l’interazione con altre specie.
Infatti, vi sono tracce di mammut, bradipi giganti, felidi, canidi e altri animali. Le impronte in genere sono difficili da associare a una specie in particolare, perché la forma delle zampe in molti gruppi è simile, diventando indistinguibile. In questo caso, però, le tracce sono indubbiamente associabili a individui umani moderni, proprio perché le impronte sono piatte, con annesse altre tracce associate allo slittamento del piede a indicare una locomozione moderna. Vi sono anche impronte più piccole, di bambini, a suggerire una sovrapposizione della nostra specie con la megafauna, portando a pensare che queste occupazioni fossero continue e non di transizione.
Infatti, con una ricerca pubblicata nel 2022, si retrodata ulteriormente l’arrivo della nostra specie in America a prima di 37 000 anni fa, ben 17 000 anni prima di quanto indicassero tutti gli altri recenti studi, grazie al ritrovamento di un mammut in un sito di macellazione risalente a quell’epoca.

 

La complessità dello studio dell’evoluzione umana

Questi studi permettono di comprendere quanto sia complesso studiare l’evoluzione umana e capire le dinamiche dei flussi migratori che si sono susseguiti nel tempo. I dati in nostro possesso, al momento, riescono a darci un quadro più completo, soprattutto perché sembrava “strano” che tutto il mondo venisse colonizzato da Homo sapiens, mentre l’America solo in tempi recenti, come indica la cultura Clovis rinvenuta in Nord America che datava, fino a qualche anno fa, l’arrivo attorno ai 15 000 anni.
Questo mix di scienze, che includono la paleogenomica e la paleontologia, è il risultato di una complessa collaborazione tra rami diversi che ci permette, di anno in anno, di fare scoperte stupefacenti e di aggiornare continuamente le nostre conoscenze in merito all’evoluzione. Naturalmente, non bisogna pensare che questi risultati possano dare una risposta assoluta e definitiva sull’arrivo della nostra specie o del nostro genere sul suolo americano, in quanto qualsiasi tipo di reperto che verrà scoperto d’ora in poi scombussolerà ogni nostra conoscenza data per acquisita.

Mattia Paparo
Mattia Paparo
Mattia Paparo, laureato in Scienze Naturali all'Università di Bologna e laureando in Scienze della Natura e dell'Uomo a Firenze. È autore della pagina Facebook “Appesi a un Phylum”, dove parla di evoluzione e di paleontologia raccontando le bellezze di queste discipline sottovalutate. Ha svolto un tirocinio presso il Museo Geologico Capellini di Bologna, mentre ora sta lavorando sulla revisione di reperti iberici appartenenti al genere Palaeotherium, un gruppo di equoidi imparentati alla lontana con i cavalli, presso l’Institut Català de Paleontologia di Barcellona.
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