Pochi giorni fa, a Roma, si è tenuta l’annuale cerimonia di premiazione del Prix Galien Italia, un’iniziativa nata in Francia negli anni ’70 e oggi considerata alla stregua di un “premio Nobel” in campo farmaceutico.
L’edizione italiana del prestigioso riconoscimento internazionale per la ricerca farmacologica premia non solo le aziende farmaceutiche che si sono distinte nel settore, ma, come ogni anno, assegna tre borse da 3000 euro l’una a tre giovani ricercatori che svolgono la loro attività in Italia. Quest’anno i vincitori sono stati: per la ricerca preclinica Giorgia Colombo, del Dipartimento di Scienze Farmaceutiche, Università del Piemonte Orientale di Novara; per la ricerca clinica Milo Gatti, dell’IRCCS Azienda Ospedaliero Universitaria di Bologna; per la ricerca traslazionale Paola Mantuano, del Dipartimento di Farmacia – Scienze del Farmaco, Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”. Proprio a quest’ultima abbiamo posto alcune domande per saperne di più sul suo lavoro.
Partiamo dalle basi: può spiegarci cosa vuol dire “ricerca traslazionale” e di cosa si occupa il suo gruppo di ricerca?
La ricerca farmacologica è caratterizzata da varie fasi, come si suol dire in inglese “from bench to bedside”, cioè dal bancone del laboratorio al letto del paziente: la ricerca di base, quella traslazionale e quella clinica vera e propria (che corrispondono alle tre categorie premiate dal Prix Galien). Il nostro gruppo di ricerca, coordinato dalla professoressa Annamaria De Luca presso il Dipartimento di Farmacia – Scienze del Farmaco dell’Università di Bari, si occupa essenzialmente di ricerca traslazionale, che consente, letteralmente, di “tradurre il dato”, cioè mira a trasformare in attività clinica i risultati della ricerca di base, cercando di creare un ponte, un dialogo virtuoso fra i due ambiti. Per farlo, ci avvaliamo sia di modelli animali (essenzialmente murini) che di modelli cellulari (cellule prelevate da pazienti e organoidi); in particolare, noi ci occupiamo di patologie neuromuscolari, rare e non, per le quali non esiste ancora una cura risolutiva.
Di cosa tratta nello specifico il lavoro per cui ha ricevuto il Prix Galien?
Da tanti anni il nostro gruppo fa ricerca sulla distrofia muscolare di Duchenne, una malattia genetica causata dall’assenza di distrofina nelle fibre muscolari, che provoca una progressiva perdita della struttura e della funzionalità dei muscoli (compresi quelli respiratori e il cuore) e porta i pazienti a morte prematura. È una malattia pediatrica severa, progressiva e invalidante, e purtroppo ancora oggi senza una cura, nonostante gli enormi passi da gigante fatti dalla ricerca, che ha prodotto terapie geniche e farmacologiche capaci di migliorare la qualità della vita dei pazienti.
Il focus del nostro gruppo è quello di andare a cercare nuove terapie per questa patologia, testando farmaci che migliorino la funzione muscolare, agendo sui meccanismi patologici che conseguono all’assenza di distrofina. In particolare, nel nostro studio, abbiamo testato dei composti chiamati GHS (secretagoghi dell’ormone della crescita), sintetizzati ad hoc. Uno di questi, il JMV2894, ha mostrato effetti promettenti in seguito a un trattamento nel topo mdx, modello murino predittivo della patologia ampiamente caratterizzato: abbiamo visto, infatti, che il farmaco ha indotto un miglioramento funzionale e morfologico nei muscoli dei topi mdx, dovuto a un effetto antinfiammatorio e antifibrotico. Grazie a modelli computazionali abbiamo poi valutato l’interazione con potenziali bersagli e abbiamo visto che il farmaco sembra interagire con enzimi coinvolti nel processo di fibrosi: questo risultato è molto promettente e sembra spiegare, almeno in parte, il meccanismo d’azione del farmaco.
Quali sono i limiti dello studio e quali sono i passi successivi della ricerca?
I limiti di questo studio sono emersi grazie agli esperimenti di farmacocinetica: detto in modo semplice, abbiamo visto che nel muscolo non arriva molto farmaco, quindi andrà cambiata la modalità di somministrazione per avere maggiori effetti, usando ad esempio una formulazione orale o utilizzando nanoparticelle che possano veicolare il farmaco direttamente nel muscolo. Altri test di follow-up sono quelli su modelli murini che presentano più fibrosi a livello muscolare, quindi ancor più simili alla patologia umana, per verificare se il farmaco mantiene lo stesso meccanismo d’azione.
Quanto contano i finanziamenti di enti e privati per portare avanti ricerche di questo tipo?
Sono fondamentali perché per la ricerca purtroppo i finanziamenti, pubblici e privati, non bastano mai. La ricerca si basa su materiali “consumabili” e strumentazioni all’avanguardia e spesso molto costose, e ciò richiede un grande supporto. I nostri fondi sono principalmente ottenuti grazie a progetti vinti su bandi competitivi locali, nazionali e internazionali, sia ministeriali (come i PRIN o, più recentemente, il PNRR), che di enti privati. In particolare, lo studio vincitore del Prix Galien ci è stato finanziato dal Telethon francese, e per noi è importantissimo collaborare con associazioni di questo tipo, come anche il Duchenne Parent Project e le aziende private che aiutano la ricerca su queste “malattie orfane”: solo la ricerca può portare una speranza per i piccoli pazienti, orfani appunto di attenzioni e trattamenti specifici.
Il Prix Galien però è anche un premio “alla carriera”: qual è stato il suo percorso di studi e ricerca? Si sente un “cervello non in fuga”?
Sì, mi ritengo molto fortunata a poter lavorare e fare ricerca ad alto livello nella mia città, Bari. Qui mi sono laureata in Biotecnologie mediche e Medicina molecolare, con una tesi sperimentale in Farmacologia all’IRCCS “Giovanni Paolo II” di Bari, e già da allora mi sono orientata verso il mondo della ricerca farmacologica. Poi ho proseguito con il dottorato in Farmacologia nel gruppo di ricerca della professoressa De Luca e da lì è proseguito il mio percorso accademico. In questi anni, ho preso parte a tanti progetti nazionali e internazionali, nell’ambito dei quali ho avuto l’occasione anche di lavorare presso laboratori esteri, come il BIDMC – Harvard Medical School di Boston, e il Royal Veterinary College di Londra, ma mi riempie sempre il cuore d’orgoglio sapere che non abbiamo nulla da invidiare come qualità della ricerca ai laboratori che ho visto in altri Paesi.
Ho scelto il mondo della ricerca perché avevo l’idea un po’ romantica di poter contribuire a individuare nuove terapie farmacologiche per malattie che ad oggi non hanno cura: naturalmente è tutto molto più complesso, ma aggiungere anche solo un piccolo tassello al vastissimo puzzle delle nostre conoscenze è fondamentale, nonostante tutte le difficoltà di chi fa ricerca oggi.
Qual è il suo prossimo obiettivo dopo il Prix Galien?
Questo premio, di cui sono davvero onorata, è un riconoscimento per tutto il gruppo di ricerca, ma non lo vedo come un traguardo, bensì come un punto di partenza, un trampolino di lancio per fare sempre meglio e continuare la ricerca nella giusta direzione. È una grande iniezione di fiducia per continuare a crescere a livello di gruppo e a livello personale: ora vorrei approfondire le tematiche di ricerca con una nuova maturità e costruire assieme al mio gruppo una realtà di ricerca che possa andare avanti negli anni e arrivare a un livello di qualità sempre maggiore.