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30 Mag 2022

Vaiolo delle scimmie, un virus da monitorare

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A meno di due mesi dalla fine, almeno sulla carta, dell’emergenza Covid, che per più di due anni ha monopolizzato le pagine dei quotidiani e i talk-show televisivi, si torna a parlare di un virus e di una zoonosi: il vaiolo delle scimmie.

 

I dati epidemiologici

Secondo i dati dell’ECDC, il Centro Europeo per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie, i numeri aggiornati al 26 maggio riportano 220 casi confermati, distribuiti in 12 Paesi dell’Unione Europea (118 casi), tra cui spiccano la Spagna con 51 casi e il Portogallo con 37. Nel resto del mondo, invece, altri casi sono segnalati in Svizzera, Regno Unito, Argentina, Australia, Canada, Israele, Stati Uniti, Marocco ed Emirati Arabi Uniti. In Italia, infine, i casi sono saliti a 6, ma «non si può parlare di allarme», come sottolinea Carlo Signorelli, docente di Igiene e Sanità Pubblica all’Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano.
Una progressione comunque rapida e anomala, per una patologia endemica nell’Africa centro-occidentale che si era presentata al di fuori del continente africano solo in casi sporadici e sempre legati a viaggi di ritorno dall’Africa o a importazioni di animali infetti.

 

Segni e sintomi del vaiolo delle scimmie

La patologia si manifesta generalmente in forma lieve, con un tasso di mortalità intorno all’1-3%, e presenta sintomi aspecifici quali febbre, stanchezza, linfoadenopatia e dolorabilità diffusa accompagnati, però, da lesioni cutanee vescicolari caratteristiche, in particolare su viso, mani e piedi. La guarigione avviene spontaneamente in qualche settimana.

 

Le differenze con il Covid-19

Esiste una terapia ed esiste pure un vaccino, somministrabile anche post-esposizione, ma a oggi nessun decesso è stato riportato nei casi delle ultime settimane. Lo scenario è quindi decisamente diverso rispetto al Covid-19, così come molto diverso è il livello di preoccupazione che questo virus determina nella comunità scientifica internazionale. Il colpo di scena in questa nuova storia, però, capace di destare l’attenzione degli scienziati, è l’improvviso cambiamento del pattern di diffusione della malattia, che nei giorni scorsi ha indotto l’Organizzazione Mondiale della Sanità a convocare una riunione d’urgenza con il comitato tecnico sulle patologie a rischio endemico e pandemico. Il vaiolo delle scimmie rimane comunque una patologia classificata tra quelle a basso rischio per la popolazione umana. Almeno per ora.

 

L’identikit del monkeypox virus

Il protagonista del vaiolo delle scimmie è un virus a DNA molto grande, con una genetica complessa, appartenente al genere Orthopoxvirus, famiglia Poxviridae, strettamente correlato al virus del vaiolo umano e a quello del vaiolo bovino.
Il vaccino contro il vaiolo umano, che negli anni ’70 del secolo scorso ha permesso di eradicare una malattia le cui tracce risalgono all’antico Egitto e che nel XIX secolo ha causato quasi 500 milioni di morti, produce una cross-copertura – protegge, cioè, sia dal vaiolo umano sia da quello delle scimmie – che arriva fino all’85% per il vaiolo delle scimmie. Quest’ultimo, anche detto monkeypox virus, si chiama così perché venne identificato in un gruppo di scimmie da laboratorio in Danimarca nel 1958.

 

 

 

Il patogeno, in realtà, sembra trovare il suo serbatoio naturale nei roditori, dai quali si trasmette ai primati e all’uomo attraverso lo stretto contatto con i liquidi corporei, saliva, droplet o lesioni cutanee di animali infetti.
Presente in modo endemico nel continente africano, il virus si palesa in due ceppi distinti, diversi per livelli di patogenicità e tasso di mortalità (che può arrivare in uno dei due fino al 10%), originari della parte occidentale e di quella centrale dell’Africa. La patologia, da quando nel 1970 ha fatto la sua prima comparsa nella specie umana in Congo, si è manifestata al di fuori delle sue zone di endemicità in modo sporadico, in episodi la cui insorgenza era sempre chiaramente riconducibile all’Africa o ad animali infetti provenienti, in particolare, dalla Nigeria.
È stato questo il caso dell’epidemia dilagata in Texas nel 2003, in seguito all’importazione dall’Africa di centinaia di piccoli roditori, venuti poi a contatto con i cani della prateria (anche loro dei roditori venduti come pet): in questo episodio, l’infezione colpì 47 persone che avevano avuto contatti diretti con gli animali infetti.

 

Gli attuali focolai e il contagio da uomo a uomo

I focolai attuali della malattia raccontano però storie differenti. Solo il primo caso segnalato nel Regno Unito è riconducibile a un viaggio in Nigeria. Moltissimi, invece, sono riferibili a presenze nelle isole Canarie, in Spagna e in Portogallo. La trasmissione da persona a persona, che era considerata di scarsa rilevanza, è ritenuta ora essere alla base della diffusione dei focolai attuali. Il contagio, come visto, richiede comunque un contatto stretto, sebbene sia sufficiente l’utilizzo di lenzuola, asciugamani e indumenti contaminati. I dati ad oggi disponibili sembrano indicare che il virus possa essere trasmesso attraverso rapporti sessuali. Il sequenziamento del genoma virale responsabile dei focolai, già disponibile per Portogallo e Belgio, fornirà, si spera, le risposte a molte domande.
Infine, gli attori protagonisti chiamati a fronteggiare questo nemico della salute umana sono ancora una volta tutti gli operatori sanitari, sia della medicina umana sia di quella veterinaria, supportati da professionisti ed esperti in campo biologico ed ecologico. Come già risultato evidente con la pandemia da Covid-19, le interconnessioni tra salute umana, salute animale e ambiente sono sempre più evidenti, anche per questi nuovi casi di vaiolo che richiedono un attento monitoraggio.

Immagine di copertina: copyright prof. Fabio Del Piero, Louisiana State University

Paola Gulden
Paola Gulden
Laureata in Medicina veterinaria presso l’Università di Milano, ha svolto per molti anni la libera professione come veterinario ippiatra, occupandosi principalmente di medicina di allevamento, neonatologia e anestesiologia. Fa parte di un board internazionale per il controllo delle malattie infettive nei cavalli. Appassionata da sempre di natura e fauna e amante della divulgazione scientifica, sta concludendo il Master FaunaHD dell’Università dell’Insubria.
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