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05 Mar 2021

Vitamina D e COVID-19: cosa sappiamo davvero?

Maria Cristina Gauzzi

Maria Cristina Gauzzi
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Sin dall’inizio della pandemia, la vitamina D ha ricevuto grande attenzione dalla comunità medico-scientifica per il suo possibile ruolo protettivo nei confronti dell’infezione da SARS-CoV-2 e della malattia COVID-19. Dopo quasi un anno e oltre 450 pubblicazioni scientifiche su vitamina D e COVID-19, l’argomento è ancora controverso. Ma come è nata l’ipotesi di un ruolo della vitamina D in questa malattia? E soprattutto, quali sono i dati sperimentali disponibili? 

 

Vitamina D per la prevenzione e la terapia: le osservazioni alla base dell’ipotesi

Sapevamo da tempo che la vitamina D può proteggerci da infezioni respiratorie virali o batteriche. Una meta-analisi di 39 studi clinici con un totale di circa 29.000 partecipanti ai quali era stata prescritta la vitamina D a scopo preventivo, ha dimostrato una riduzione statisticamente significativa, seppur modesta, del rischio di contrarre un’infezione respiratoria acuta, come l’influenza o il raffreddore, soprattutto in coloro che avevano livelli iniziali di vitamina D particolarmente bassi.
Esiste poi una sorprendente sovrapposizione tra i fattori di rischio per la severità del COVID-19 e quelli per una carenza di vitamina D. È noto che l’efficienza di sintesi della vitamina D nella pelle diminuisce negli anziani, ed è bassa nei gruppi etnici la cui pelle è ricca di melanina se vivono a latitudini elevate. Gli obesi sono a rischio di carenza funzionale di vitamina D, la quale, essendo liposolubile, viene sequestrata nel tessuto adiposo invece di essere rilasciata in circolo. Diverse malattie croniche sono state associate a disturbi nel metabolismo della vitamina D. I residenti negli istituti di cura (le cosiddette RSA) sono notoriamente tra i soggetti più carenti, per età, ridotta esposizione al sole e/o malattie concomitanti. Tutte queste categorie di persone si sono rivelate particolarmente vulnerabili al virus. È stato anche osservato un effetto della latitudine sulla malattia, poiché la diffusione geografica e la mortalità da COVID-19 nel mondo sembrano andare di pari passo con i tassi di carenza di vitamina D nelle popolazioni.
Infine, esiste un forte razionale biologico per ipotizzare che la vitamina D moduli favorevolmente la risposta dell’organismo al SARS-CoV-2, sia nella fase iniziale viremica che in quella successiva caratterizzata da una eccessiva risposta infiammatoria.

 

I benefìci della vitamina D nelle infezioni virali

Studi effettuati nel contesto di altre infezioni hanno dimostrato che la vitamina D ha proprietà antivirali. Stimola le cellule dell’immunità innata (macrofagi, cellule dendritiche e granulociti) a produrre piccole molecole, chiamate catelicidine e defensine, che danneggiano le particelle virali e reclutano nel sito di infezione altre cellule immunitarie. Può indurre l’autofagia, un meccanismo di difesa dai patogeni intracellulari, quali i virus, che isola i microrganismi in vescicole intracellulari dove vengono poi distrutti. Inoltre, la vitamina D coopera con l’interferone di tipo I, uno dei più potenti mediatori della risposta antivirale innata dell’organismo.
La vitamina D può anche regolare l’espressione del recettore utilizzato dal SARS-CoV-2 per entrare nelle cellule, l’enzima ACE2, che è anche un componente importante del sistema renina-angiotensina, la cui dis-regolazione contribuisce alla severità della malattia. Infine, la vitamina D modula l’espressione di citochine e chemochine, molecole che “orchestrano” la risposta immunitaria, attenuando la produzione di mediatori pro-infiammatori e aumentando l’espressione di quelli anti-infiammatori. In tal modo la vitamina D contribuisce alla risoluzione dell’infiammazione, necessaria per l’eliminazione del virus, ma dannosa per i tessuti se eccessiva. Grazie a questa attività anti-infiammatoria la vitamina D potrebbe contribuire a contrastare la “tempesta citochinica” nelle fasi più avanzate della malattia.
È bene sottolineare che tutte le evidenze biologiche discusse sopra sono state ottenute nello studio di altre infezioni o di patologie a base immunitaria. Ad oggi non esistono studi pubblicati su riviste con peer-review sull’azione della vitamina D in modelli sperimentali (cellulari o animali) di infezione con il SARS-CoV-2.

 

Quali sono i dati attualmente disponibili nella letteratura biomedica?

Numerosi studi “osservazionali” hanno cercato una relazione tra la concentrazione plasmatica della 25-idrossivitamina D (25OH, il precursore della forma attiva, utilizzato in clinica per valutare lo stato della vitamina D), il rischio di infezione da Sars-CoV-2 o la gravità della malattia. La quasi totalità di questi studi ha documentato l’esistenza di un’associazione tra carenza di vitamina D e rischio di risultare positivi al Sars-CoV-2 e di sviluppare sintomi più gravi.
In molti casi, i livelli di vitamina D sono stati misurati al momento del ricovero in ospedale o nel corso della degenza, quindi presumibilmente in una fase della malattia in cui la reazione iperinfiammatoria è iniziata e potrebbe causare un abbassamento dei livelli ematici di vitamina D. Non si può quindi escludere che i bassi livelli osservati possano essere conseguenza – e non causa – della malattia (quella che viene chiamata causalità inversa). Queste osservazioni non permettono di stabilire una relazione causa-effetto rispetto alla malattia, ma possono avere un valore prognostico, poiché in diversi studi bassi livelli di vitamina D nel sangue sono stati associati a una prognosi peggiore.
Esistono anche studi effettuati su gruppi di individui (coorti) per i quali erano noti i valori di 25OH precedenti al test per COVID-19, e per i quali quindi si può escludere – per via della relazione temporale tra le due misure – la causalità inversa. Uno studio* è basato su un campione molto esteso e ben controllato di dati ottenuti da una biobanca del Regno Unito creata per seguire nel lungo termine le cause di malattia e morte nella popolazione di mezza età e anziana. Al momento del reclutamento, tra il 2006 e il 2010, i partecipanti erano stati sottoposti a questionari su salute e stili di vita e ad analisi cliniche, inclusa la misurazione della 25OH. Gli autori hanno analizzato circa 350.000 partecipanti ai quali era stata misurata la vitamina D (10-14 anni prima), 449 dei quali sono risultati positivi al SARS-CoV-2 tra marzo e aprile 2020 senza trovare evidenze di una relazione tra livelli di 25OH e rischio di infezione con SARS-CoV-2. Tre studi successivi  (10.1111/febs.15495**, 10.1371/journal.pone.0239252***, 10.1001/jamanetworkopen.2020.19722****), due dei quali effettuati su grandi coorti, e con tempi più brevi (6 mesi-1 anno) intercorsi tra misurazione di 25OH e test per SARS-CoV-2, hanno invece riportato un’associazione significativa tra bassi livelli di 25OH e probabilità di risultare positivi.
Resta da dimostrare se adeguati livelli di vitamina D possano diminuire il rischio di infezione o influenzare il decorso della malattia. A tale scopo un’evidenza solida e incontrovertibile può venire da studi clinici controllati randomizzati effettuati su larga scala. Ne sono in corso alcuni, consultabili sui registri americani ed europei (https://clinicaltrials.gov/; https://www.clinicaltrialsregister.eu), i cui risultati saranno presumibilmente disponibili tra alcuni mesi. Ad oggi, sono pubblici solo i risultati di piccoli studi che indicano un beneficio dell’integrazione con 25OH o vitamina D somministrate in aggiunta alle terapie standard. Si tratta però di studi-pilota, che necessitano di conferme da studi più grandi e ben controllati.
Tornando alla domanda iniziale se la vitamina D può avere un ruolo nella prevenzione o nella terapia del COVID-19, una conclusione prudente è che ad oggi non abbiamo sufficienti evidenze scientifiche, ma che, viste le osservazioni di questi mesi, è assolutamente necessario continuare a cercarle. Informazioni preziose sul ruolo della vitamina D nella biologia del virus e nella patologia del COVID-19 potrebbero arrivare dalla ricerca di base, dagli studi epidemiologici e da quelli clinici. L’insieme di tali informazioni sarà fondamentale per guidare le scelte di medici e responsabili della salute pubblica.

 

Un breve glossario

La vitamina D e il suo metabolismo: la vitamina D è una vitamina sui generis, perché sebbene possa essere assunta in piccole quantità con la dieta (è presente in alcuni pesci, nel tuorlo d’uovo, nel fegato di manzo) è prodotta principalmente a livello della cute a seguito dell’esposizione solare. La vitamina D subisce poi due reazioni enzimatiche, nel fegato e nel rene, che la trasformano in 25-idrossivitamina D (25OH o calcidiolo) e poi in 1,25-diidrossivitamina D (o calcitriolo), la molecola biologicamente attiva. La vitamina D è dunque più correttamente definita un pro-ormone. Oltre a fegato e rene, anche altre cellule e tessuti, e in particolare le cellule dell’immunità innata, sono in grado di compiere queste reazioni e produrre “localmente” vitamina D biologicamente attiva a partire dai precursori circolanti nel sangue. Quando si parla di livelli di vitamina D nel sangue o stato della vitamina D, ci si riferisce ai livelli di 25OH, cioè del metabolita intermedio.
Meta-analisi: la meta-analisi è una tecnica clinico-statistica, che consente di assemblare i risultati di più studi clinici di uno stesso trattamento/patologia in un unico risultato cumulativo.
Peer-review: revisione tra pari, cioè la valutazione critica dei lavori scientifici effettuata da 2-3 persone competenti nella materia, necessaria per la pubblicazione sulle riviste scientifiche.
Studio clinico randomizzato controllato: È uno studio clinico sperimentale in cui i partecipanti vengono assegnati in modo casuale a due gruppi: il gruppo di intervento a cui verrà somministrato il farmaco in esame e il gruppo di controllo che riceverà un farmaco già in uso per quella malattia, se esiste, o un placebo. L’assegnazione dei trattamenti è fatta mediante un sistema di sorteggio (randomizzazione) che favorisce la comparabilità fra i gruppi. Gli studi clinici randomizzati controllati sono considerati il gold standard per la sperimentazione clinica.

 

 

 

* https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S1871402120301156?via%3Dihub

** https://febs.onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/febs.15495

*** https://febs.onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/febs.15495

**** https://jamanetwork.com/journals/jamanetworkopen/fullarticle/2770157

Maria Cristina Gauzzi
Maria Cristina Gauzzi
Laureata in Scienze biologiche all’Università “La Sapienza” di Roma, la sua formazione post-laurea si è svolta all’Istituto di Biologia Cellulare del CNR di Roma e all’Institut Pasteur di Parigi. Lavora all’Istituto Superiore di Sanità dal 1997 ed è Ricercatrice nel Centro Nazionale per la Salute Globale. Svolge attività di ricerca nel campo dell’immunologia cellulare di malattie infiammatorie (sclerosi multipla) e infezioni virali (HIV-1).  
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