Le balene sono animali fortemente minacciati: due esempi sono la balena franca nordatlantica (Eubalaena glacialis), vittima della caccia a fini commerciali, e la balena grigia (Eschrichtius robustus), scomparsa per ragioni ancora poco chiare. Una storia di sopravvivenza che potrebbe aver avuto luogo anche in tempi e luoghi inaspettati: nel Mediterraneo, in epoca pre-romana e romana.
Le balene sono animali fortemente minacciati: due esempi sono la balena franca nordatlantica (Eubalaena glacialis), vittima della caccia a fini commerciali, e la balena grigia (Eschrichtius robustus), scomparsa per ragioni ancora poco chiare. Una storia di sopravvivenza che potrebbe aver avuto luogo anche in tempi e luoghi inaspettati: nel Mediterraneo, in epoca pre-romana e romana.
Secondo la narrazione di Plinio il Vecchio (I secolo d.C.), alcune balene partorivano i propri cuccioli nella baia di Cadice, in Spagna, e spesso questi esemplari venivano attaccati dalle orche. Una descrizione capace di aprire nuove prospettive riguardo un pezzo di storia naturale dimenticato, a cui sono legati dati sulla distribuzione delle balene, sulle loro nursery, sul loro impatto in un ecosistema passato ma anche su una possibile e antica attività di pesca. Trovare le prove tangibili di tutto questo è sempre stato giudicato complesso poiché i resti di balena ritrovabili in contesti archeologici sono frequentemente troppo frammentati per procedere a una identificazione della specie a cui appartengono in base alla morfologia.
Questa volta, però, per le ossa recuperate in quattro siti archeologici nella regione di Gibilterra – nell’ambito di uno studio sullo sfruttamento antico delle risorse marine condotto dall’Università di Cadice – è stato diverso: gli scienziati si sono affidati a due nuove tecniche di analisi in grado di determinare la specie (o il genere) attraverso l’esame del DNA e del collagene presente nei reperti.
Fotografia aerea delle vasche per i pesci e per il sale nell’antica città romana di Baelo Claudia, vicino all’attuale Tarifa, in Spagna. La vasca più ampia, di forma circolare, ha diametro di 3 metri e poteva contenere 18 metri cubi di acqua. Queste vasche erano utilizzate per il pesce, in particolare per il tonno. Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Proceedings of the Royal Society of London B, sostiene la possibilità che questi spazi potessero essere adoperati anche per il processamento delle carni delle balene. Credits: D. Bernal-Casasola, University of Cadiz
L’acido deossiribonucleico è stato adoperato per il DNA barcoding, un metodo che consente l’identificazione delle differenti specie animali o vegetali utilizzando un breve tratto di DNA, situato in una regione standard del genoma. Questa piccola sezione funziona in maniera simile al codice a barre che troviamo nei prodotti del supermercato e che ci permette di individuare univocamente e velocemente ciò che abbiamo acquistato, attraverso il lettore presente alla cassa.
Per quanto riguarda il collagene, una proteina, componente organica delle ossa ubiquitaria nei biomateriali raccolti in contesti archeologici e paleontologici, la tecnologia adoperata è la ZooMS (Zooarchaeology by Mass Spectrometry): le proteine di interesse vengono suddivise in più piccoli frammenti (peptidi), le cui masse assolute sono misurate da uno spettrometro di massa. I dati ottenuti sono, quindi, confrontati con un database che permette di risalire alla specie (o al genere) a cui appartiene il collagene.
I ricercatori sono riusciti, così, a identificare tre esemplari di balena franca nordatlantica e tre di balena grigia, dimostrando che storicamente queste specie vivevano nella regione di Gibilterra – probabilmente il loro areale comprendeva anche il mar Mediterraneo – che costituiva per loro un rifugio in cui partorire. Duemila anni fa questi animali dovevano essere comuni e la loro scomparsa dalla zona del Mediterraneo ha probabilmente causato un impatto significativo sull’ecosistema. La loro assenza avrà portato all’allontanamento o alla morte dei loro predatori, le orche (Orcinus orca), e a una diminuzione della produttività primaria marina, in quanto le migrazioni di balene sono dei veri e propri nastri trasportatori di nutrienti: entrambe le specie di balene studiate digiunano durante la stagione dei parti, utilizzando le loro riserve lipidiche per mantenere il metabolismo e – in caso di femmine che allattano – per produrre latte per i propri cuccioli. Quindi i nutrienti che vengono espulsi durante questo periodo (soprattutto l’azoto, sotto forma di urea) dava origine ad aree di nutrimento per altri animali nelle alte latitudini.
Non dimentichiamo l’aspetto archeologico: la presenza di questi mammiferi, facilmente raggiungibili dalle coste durante la dominazione romana, dà credito all’ipotesi per cui ci fosse un’industria basata sulla caccia alla balena. Nei siti esaminati erano pescati e processati i tonni quindi non sarebbe difficile pensare che la stessa sorte toccasse alle balene, probabilmente catturate con piccole imbarcazioni e arpioni a mano, lo stesso metodo usato dai balenieri baschi del medioevo, alcuni secoli più tardi.
Con questo post la rubrica “Scienza e beni culturali” vi saluta per la pausa estiva. Vi aspettiamo a settembre con nuovi approfondimenti e interviste. Buone vacanze!