A quanti sarà capitato di domandarsi come abbiano fatto strutture del Passato ad arrivare quasi integre fino ai giorni nostri? “Un tempo si lavorava meglio!”, “Secoli fa si costruiva per lasciare una testimonianza che potesse conservarsi quanto più a lungo possibile”. Queste sono solo alcune delle affermazioni che abbiamo ascoltato innumerevoli volte sull’argomento. Recentemente è stato pubblicato uno studio che dimostra come le maestranze di epoca romana fossero in grado di preparare un cemento straordinario per strutture a stretto contatto con il mare.
(Infografica di Maria Cristina Caggiani, autrice del blog Archeobaleni)
A quanti sarà capitato di domandarsi come abbiano fatto strutture del Passato ad arrivare quasi integre fino ai giorni nostri? “Un tempo si lavorava meglio!”, “Secoli fa si costruiva per lasciare una testimonianza che potesse conservarsi quanto più a lungo possibile”. Queste sono solo alcune delle affermazioni che abbiamo ascoltato innumerevoli volte sull’argomento. Recentemente è stato pubblicato uno studio che dimostra come le maestranze di epoca romana fossero in grado di preparare un cemento straordinario per strutture a stretto contatto con il mare.
I cementi idraulici – quindi in grado di indurirsi in acqua – sono definiti come “materiali polvirulenti che, impastati con acqua, forniscono una massa plastica capace di dar presa e indurire fortemente anche in acqua”. Parliamo quindi di polveri che, mescolate con acqua, riescono a solidificare in modo da creare blocchi di “pietra artificiale” con determinate caratteristiche.
Ai cementi si richiede soprattutto di essere resistenti, cioè di sopportare sollecitazioni quali compressione, trazione, flessione, taglio e torsione. Queste sono le straordinarie proprietà del cemento romano con il quale sono stati costruiti, circa 2000 anni fa, il Portus Neronis (Anzio), il Portus Baianus (Pozzuoli), il Portus Cosanus (Orbetello) e il Portus Traianus (Ostia). Come hanno fatto queste strutture a resistere all’azione implacabile del Tempo?
Il cemento Portland, il corrispettivo odierno del cemento romano, comincia a sgretolarsi dopo pochi decenni, soprattutto a causa della corrosione dei rinforzi in acciaio (necessari per controbilanciare la mancanza di resistenza alla tensione e duttilità, ossia la capacità di deformarsi prima di giungere alla rottura), inesistenti nelle antiche strutture. Cosa rende, invece, tanto speciale e così duratura l’antica ricetta?
Banchina di Portus Cosanus a Orbetello, in Italia. Fonte: J.P. Oleson. Immagina tratta dall’articolo di M.D. Jackson, S.R. Mulcahy, Heng Chen, Yao Li, Qinfei Li, P. Cappelletti, H.R. Wenk, Phillipsite and Al-tobermorite mineral cements produced through low-temperature water-rock reactions in Roman marine concrete, American Mineralogist, Volume 102, pages 1435–1450, 2017
L’articolo pubblicato sull’American Mineralogist ci spiega che il segreto è nella presenza di due minerali: la Phillipsite e la Tobermorite alluminosa. Il cemento romano era preparato a partire da calce viva e cenere vulcanica, la pozzolana (chiamata così perché raccolta nella città di Pozzuoli), e altre rocce. L’unione di questi ingredienti dava vita a una reazione in grado di produrre nuovi minerali. Il contatto con l’acqua marina ha fatto sì che un’ulteriore variabile si aggiungesse al processo che, in questo modo, portava alla formazione dei due minerali sopra indicati che hanno rinforzato il materiale, prevenendone le fratture.
Purtroppo il cemento Portland, composto di clinker (un componente artificiale preparato a partire da minerali contenenti ossidi di Calcio, Silicio, Alluminio, Ferro e Magnesio) e gesso, dopo aver “fatto presa” diviene totalmente inerte e non sviluppa nuovi minerali che ne possano migliorare la resistenza.
Allora perché non ritornare al materiale da costruzione che già Plinio il Vecchio e Vitruvio conoscevano e decantavano nei loro scritti? I vantaggi sarebbero tanti: la produzione del cemento Portland è più inquinante, a causa delle consistenti emissioni di anidride carbonica, a fronte di una minore efficienza. È una questione di chimica, proprio come in pasticceria: per una torta buona e della giusta consistenza non basta sapere gli ingredienti, è necessario conoscerne perfettamente le proporzioni e le reazioni che avvengono a determinate temperature.
Questa sarà la nuova sfida per i ricercatori: riuscire a ritrovare le quantità di questa antica ricetta per poterci assicurare un futuro migliore.