L’artigianato, quel mix di saper fare, tradizione e materie prime strettamente legate a un territorio, è diventato – da relativamente poco tempo – oggetto di conservazione e valorizzazione da parte delle istituzioni. In quanto “testimonianza di civiltà” è entrato di diritto nel novero dei beni culturali materiali, quando parliamo di un oggetto, immateriali se ci riferiamo alle conoscenze che si tramandano di generazione in generazione per produrlo, alle caratteristiche che deve possedere, ai valori che racchiude. Può accadere che qualcosa di antico si riveli utile per il futuro. È ciò che è successo ai kimono in bansho-fu.
L’artigianato, quel mix di saper fare, tradizione e materie prime strettamente legate a un territorio, è diventato – da relativamente poco tempo – oggetto di conservazione e valorizzazione da parte delle istituzioni. In quanto “testimonianza di civiltà” è entrato di diritto nel novero dei beni culturali materiali, quando parliamo di un oggetto, immateriali se ci riferiamo alle conoscenze che si tramandano di generazione in generazione per produrlo, alle caratteristiche che deve possedere, ai valori che racchiude. Può accadere che qualcosa di antico si riveli utile per il futuro. È ciò che è successo ai kimono in bansho-fu.
Il bansho-fu è un tessuto prodotto a partire dalle fibre di parte dei gambi della pianta del banano (per l’esattezza della specie Musa balbisiana var. liukiuensis) nell’isola di Okinawa, nel sud del Giappone. I kimono realizzati con questo filato erano indossati da diverse fasce della popolazione durante il Regno Ryuku (1429-1879). Il bansho-fu era già prodotto nel XIII-XIV secolo e si continuò a filarlo anche dopo l’introduzione della seta. Il segreto di questo materiale? Era tanto resistente da poter essere usato contadini e pescatori e si mostrava adatto a un clima caldo e umido come quello subtropicale di Okinawa. L’arte di utilizzare le fibre vegetale del banano, lavorandole fino a realizzare questo particolare tessuto, è ora oggetto di uno studio scientifico. Cosa ci nasconde il bansho-fu?
Foglie di Musa balbisiana. Fonte: David J. Stang [CC BY-SA 4.0 (https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)], via Wikimedia Commons
Yoko Nomura è uno scienziato trasferitosi dalla California a Okinawa per lavorare presso l’Okinawa Institute of Science and Technology Graduate University. Il nuovo clima da affrontare, molto più umido, lo ha spinto a ricercare soluzioni innovative, risposte che ha trovato nel tradizionale metodo per rimanere freschi: il bansho-fu, la cui produzione attualmente è in pericolo a causa della diminuzione di disponibilità del vegetale e dell’introduzione di metodi moderni di realizzazione. Per documentare e salvare una pratica tradizionale, i ricercatori – in collaborazione con la University of the Ryukyus e la Kijola Basho-fu Association – hanno deciso di confrontare antica e nuova lavorazione attraverso l’analisi con tecniche diagnostiche tra cui la microscopia ottica a scansione e la diffrattometria a raggi X.
In particolare, è stato studiato il materiale prima e dopo il procedimento di degommaggio – effettuato con K2CO3, carbonato di potassio – tradizionale e industriale. Cos’è il degommaggio? Si tratta della rimozione di cere, resine e altre sostanze non cellulosiche dalla parte cellulosica della fibra della pianta. Questo procedimento è necessario prima dell’utilizzo tessile della fibra in quanto le conferisce più plasticità e quindi maggiore sensibilità all’azione meccanica dei telai. Al SEM è stato possibile osservare i fasci di vasi che nella pianta viva trasportano acqua e nutrienti mentre, nel tessuto, costituiscono una struttura a pori dall’effetto traspirante. Gli studiosi hanno scoperto che il processo industriale tende a schiacciare alcune di queste strutture, diminuendone i fori, abbassando la qualità del bansho-fu, mentre, il procedimento tradizionale, più delicato, contribuisce alla produzione di tessuti di maggiore qualità.
Questo studio, insieme a quelli futuri, porterà alla conservazione del prezioso saper fare delle donne di Okinawa, proteggendo il passato e aprendo le braccia al futuro, con lo sviluppo di nuovi tessuti sulla base dei dati raccolti.